Ho viaggiato nel futuro, incontrando pionieri, scienziati, folli e visionari. Ho raggiunto i confini dell’umanità, dove per cambiare il nostro destino dovremo abbandonare la coscienza e smettere di pensare il mondo come lo abbiamo inteso fino ad oggi. La bussola che ha guidato il mio cammino, è stata la necessità di vincere la morte. Per questo, a coloro che incontravo, ponevo le mie domande al singolare, perché volevo salvare la mia vita; non avevo altro interesse che questo.

Tutto è cominciato molti anni fa, quando nella città sacra di Vrindavan, in India, un bramino mi lesse la mano. Mi raccontò della vita ma vide anche la morte, che per me sarebbe arrivata prematura e violenta. Allora ero poco più che adolescente e i vent’anni che per quell’uomo mi restavano da vivere, ai miei occhi parevano semplicemente eterni. Però ho imparato a prendere a piene mani ogni cosa della vita, illudendomi che questo atteggiamento sarebbe stato sufficiente per non avere rimpianti e per vincere ogni paura.

Fino all’estate di due anni fa, quando nella soffitta della casa al mare, trovai una fotografia che mi ritraeva da piccolo, al termine di una gara di sci. Io ero sul podio con la medaglia al collo e vicino giocava una bambina, che allora non conoscevo ma che molti anni dopo sarebbe diventata la madre di mio figlio. Davanti a quella scoperta avrei voluto pensare ai casi dell’amore più che a quelli della morte, ma non potei evitare le parole del bramino che ora mi tornavano alla mente, e che tra le pieghe della mia mano, aveva previsto anche quel momento, presagio di una prossima fine.

Nelle profezie possiamo trovare solo quello che ci aspettiamo, difficilmente quello che ci aspetta. Eppure in quell’ennesimo dettaglio che si confermava, mi sentii solo, disgraziato nella miserabile condizione di conoscere la mia fine. Così, decisi di prendere sul serio i consigli che lo stesso bramino mi aveva dato e mettendomi in viaggio, cominciai a cercare nel futuro un uomo che mi aiutasse.

Inizia dal luogo più lontano che mi venisse in mente, nella fantasia e nella geografia, perché in me cresceva la voglia di fuggire. Volai alle Hawaii per incontrare gli astronauti della NASA che si addestravano a vivere su Marte e da lì a Phoenix e poi Detroit, per conoscere i padri della crioconservazione umana. Sono sceso sottoterra, nei bunker dove migliaia di persone cercano rifugio dall’apocalisse e sotto i ghiacci delle Svalbard, dove i governi di tutto il mondo hanno nascosto i semi delle nostre principali colture, per salvarli da una catastrofe globale. In Giappone ho incontrato i creatori degli umanoidi, al Polo Nord gli scienziati che studiano il cambiamento climatico e in Corea quelli che clonano qualsiasi essere vivente, cercando di riportare in vita persino un mammut. Sulle rotte del caso ho viaggiato da occidente a oriente, fin sulle colline della penisola di Tai Pang, in Cina. Qui l’essere umano gioca con i codici della vita, aprendo le porte alla nuova Era Transomica. Sperimentando nuovi DNA, si sostituisce a Dio e annienta ogni credo.

Di volta in volta, attraversando laboratori pieni di luce o mangiando animali che non esistono in natura, mi sono immaginato nel futuro che ogni scienza disegnava, governato da regole che poco avevano a che fare con quella che per me era la vita. Anziché trovare certezze, ad ogni passo aggiungevo domande ai miei dubbi e scoprivo che il mio bisogno di vincere la morte coincideva esattamente con quello di ogni essere umano che avevo davanti. “Per il bene delle mie figlie, posso solo augurarmi che la vita sarà diversamente bella” mi ha detto una scienziata francese tra i ghiacci artici. Era un giorno di fine inverno, i bagliori del sole tornavano dopo molti mesi di buio, e la temperatura era di ventidue gradi sopra la media.

Il mio viaggio è continuato senza pace né ristoro, e giunto sul confine estremo, dove la conoscenza umana non riesce neppure più a immaginare, mi sono domandato se l’uomo possa davvero essere artefice del suo futuro o se invece questo, non sia solo il frutto dei bisogni dell’oggi e del caso. Rimettendo mentalmente in fila ogni possibilità che avevo esplorato, dall’immensità del cosmo all’infinitezza delle molecole, non trovai nessun futuro capace di ingannare la morte senza pagarne un prezzo feroce.

A Shenzhen, in Cina, in una di quelle notti affogate di pensieri, guardavo la mia immagine nuda riflessa sulla finestra della camera d’albergo. Ne seguivo i contorni e le ombre, ma lasciando andare lo sguardo, la mia immagine scompariva nella metropoli che fuori brillava, un centinaio di piani più in basso. Impossibile tenere insieme le due cose nella stessa vista, tutto sfuggiva. Io ero stanco di cercare e incapace di scegliere. Lì decisi di tornare sui miei passi, fino al punto di partenza. Tornai in India a cercare quel bramino, per chiedergli se l’unico modo per vivere una vita degna non sia accettarne la fine.