Cambio della guardia al vertice della Protezione civile. Draghi ha nominato ieri Fabrizio Curcio, già figura centrale nella struttura di Guido Bertolaso e poi capo del dipartimento dal 2015 al 2017, al posto di Angelo Borrelli, il cui mandato era comunque in scadenza a marzo. Il premier ha deciso di anticipare un po’ per lanciare un segnale di cambiamento e molto perché, nella sua strategia, la Protezione civile dovrebbe tornare almeno in parte ad assumere la postazione centrale che Conte aveva invece decurtato puntando sulla struttura di Domenico Arcuri.

La linea di Draghi è tracciata e si conferma su ogni fronte. Evitare ogni sconfessione palese di quanto fatto sinora, garantire anzi almeno formalmente la massima continuità e poi operare per modificare le cose nei ruoli chiave. La sostituzione di Arcuri, sul cui operato i dubbi certo non mancano, non è dunque all’ordine del giorno. Suonerebbe come una presa di distanza troppo drastica dalla linea di Conte, col rischio di diffondere smarrimento in una popolazione che, al contrario, deve essere rassicurata. L’obiettivo è piuttosto quello di affiancare al commissario una figura di fiducia del governo, e potrebbe essere proprio Curcio che ha l’esperienza e il taglio adeguati. Tanto più che potrebbe giocare di sponda con il coordinatore del Cts Miozzo, che ha sempre insistito per una maggior presenza della Protezione civile.

È probabile che Draghi sperasse in segnali di discontinuità più forti, soprattutto sul fronte delle riaperture. Ancora tre giorni fa, nel colloquio a palazzo Chigi con Salvini, il premier non aveva affatto chiuso ogni porta alla possibilità di riaprire almeno i ristoranti anche la sera, dopo Pasqua, e di prevedere alcuni allentamenti mirati per alleggerire la pressione sui settori più provati, dunque non solo la ristorazione, e andare incontro alle richieste sempre più martellanti dei presidenti di Regione.

Un’illusione che è durata appena poche ore. Ieri mattina nel cdm e poi nella riunione della cabina di regia, che a conti fatti è solo il vecchio vertice contiano dei capidelegazione allargato ai ministri competenti, è stato infatti chiaro che il problema non è come allentare con prudenza il rigore ma come prepararsi a un nuovo giro di vite che ormai sembra a tutti inevitabile. Il rischio, sono costretti a confessarsi apertamente premier e ministri, non è solo quello di una terza ondata: quella ormai è quasi una certezza. Il pericolo è un’ondata più alta e devastante delle altre. In termini di diffusione del virus, perché le varianti sono più infettive e colpiscono i giovani, di solito in modo non grave ma basta la positività di fasce d’età sinora poco colpite per moltiplicare la velocità di diffusione. Ma anche in termini di gravità perché il dubbio che ci sia, in alcune varianti, anche una maggiore aggressività è molto radicato.

Dunque bisognerà serrare, non riaprire. L’ipotesi della chiusura delle scuole è sul tappeto. L’altra richiesta delle Regioni, la riapertura dei ristoranti e delle funivie, invece, per ora non avrà luogo a procedere. Ma non si tratta solo di confermare il rigore ed estenderlo casomai alle scuole. È probabile che per Pasqua arrivi anche un stretta più drastica, come quella di Natale, nella speranza di arrivare agli stessi effetti. La differenza è che a Natale le varianti non erano ancora in circolazione.

Nulla di tutto questo è previsto nel prossimo dpcm che anzi avrà un senso, sia pur lievissimo, di allargamento delle maglie. Ma è il frutto di una fase di moderato ottimismo già superata e anche così incontra l’ostilità della Salute secondo cui il weekend è il momento di massimo pericolo e le chiusure, che saranno spostate al lunedì, dovrebbero continuare ad anticiparlo. Le prossime settimane, purtroppo, andranno in direzione opposta.