È possibile che, il novembre prossimo, una donna conquisti la Casa Bianca. Quando, in vista delle primarie in New Hampshire, l’ex segretario di stato americano Madeleine Albright e l’attivista e autrice femminista Gloria Steinem hanno più o meno suggerito che non votare per Hillary Clinton sarebbe stato, da parte di una donna, un atto di slealtà imperdonabile, la risposta delle giovani berniesandersiane è stata immediata e quasi-unanime: non voteremmo mai un candidato solo perché è una donna.
Per molte delle ventenni interpellate, la posizione della prima donna a comandare il dipartimento di stato Usa e della star delle femministe storiche era non solo ontologicamente sbagliata ma obsoleta: l’America, dicevano, è ormai in una fase post gender. Il dibattito che è nato da questo scontro intergenerazionale – su cui sono intervenute altre note femministe come Katha Pollit e Susan Faludi – è un altro sintomo del rapporto complesso e contradditorio che l’America ha con Hillary. Un rapporto che riflette sia delle riserve che delle aspettative spesso ingiuste, e che sembra far fede a degli standard solo suoi. Oltre che diversi da quelli applicati a un candidato maschio.

hillary-clinton-president-2016
Ironicamente, come ha notato l’editorialista del New York Times Gail Collins, la presenza di Hillary Clinton nella storia politica e culturale degli States degli ultimi venticinque anni, ha contribuito a creare quella percezione post gender che permette a molte di dire che, oggi, eleggere una donna presidente degli Stati Uniti non è una priorità fondamentale.

Nella realtà, alcuni dati suggerirebbero però che, per una donna, la strada verso la Casa Bianca sia meno spianata di quello che sembra: secondo un sondaggio Gallup del 2007, l’anno della prima campagna presidenziale di Hillary, l’88 percento degli americani diceva di essere disposto a votare una donna, ma un’inchiesta del PEW Center effettuata l’anno scorso rilevava che solo 4 su 10 si auguravano, prima o poi, di vedere una donna alle redini della Casa Bianca.

house-of-cards-robin-wright-david-giesbrecht-netflix-final
Robin Wright nella 4 stagione di “House of Cards”

Anche la pop cultura sembra indicare più pregiudizi del previsto. È vero che, dal 2006 (anno in cui la prima candidatura di Clinton era già nell’aria), con Commander in Chief, prodotta e interpretata da Geena Davies, e durata solo una stagione, almeno sei serie tv hanno incluso un presidente donna.

Solo che, a differenza di un leader ultraliberal come il presidente Bartlet di The West Wing, le presidentesse sono repubblicane (come Mackenzie Allen, in Commander in Chief, Allison Taylor della settima e ottava stagione di 24 o la temibile evangelica Sally Langston, presidente per un paio di puntate in Scandal), di partito indecifrabile (come l’inetta, opportunistica, Selina Meyer, nella serie comica di Hbo Veep) o democratiche ma centriste e con un passato militare (come Constance Payton, interpretata dall’attrice afroamericana Alfre Woodward, nella serie Nbc State of Affairs).

Oltre ad essere tutte a destra di Hillary, per non parlare di una figura politica molto amata come Elizabeth Warren, in tv raramente le donne arrivano all’ufficio ovale, grazie a una normale elezione. Spesso vengono «promosse sul campo», dal loro ruolo di vice, quando il presidente è incapacitato o si dimette (in Prison Break, il vicepresidente Caroline Reynolds ricorre al veleno…). Oppure devono la carriera politica a un padre (come Allison Taylor) o a un marito.

Chiaramente scritte per andare in onda in concomitanza con le primarie del 2016 e quindi la campagna di Hillary Clinton, le nuove stagioni di Scandal e House of Cards, vedono infatti due fist lady che aspirano al controllo della Casa Bianca. Ambiziosa e insicura, la Mellie Grant di Scandal (interpretata da Bellamy Young), tradita e abbandonata dal marito, già nelle prime stagioni della soap di Shonda Rhimes ha dimostrato di non fermarsi nemmeno di fronte a un omicidio.

Ma il quoziente Lady Macbeth raggiunge livelli ancora superiori con Claire Underwood (Robin Wright), House of Cards, che diserta il trapianto di fegato del marito, per mettere a segno un trattato con un leader russo alla Putin e minaccia di vendere la casa di sua madre mettendola sulla strada se questa non le dà un milione e mezzo per pagare un political consultant. La Casa Bianca elude ancora il personaggio della fiction da piccolo schermo più vicino, anche politicamente parlando, a Hillary Clinton: Elizabeth McCord (Tea Leoni) nella bella serie Cbs Madam Secretary, creata dopo gli hearings su Bengasi, da Barbara Hall e co-prodotta da Morgan Freeman.

Pessimo il record dei presidenti donna al cinema. Nella commedia da Guerra fredda Kisses For My President, di Curtis Bernhardt, del 1964, la prima presidentessa donna della storia, interpretata da Polly Bergen, risolve una crisi con l’Unione sovietica e un dittatore sudamericano ma poi scopre di essere incinta e si dimette per occuparsi della famiglia. In Mars Attacks di Tim Burton, la figlia teenager del presidente (Natalie Portman) viene eletta al posto di papà (Jack Nicholson) dopo che i marziani hanno fatto strage del governo Usa. E le donna presidente è ancora fantascienza in Battlestar Galactica e nel sequel di Independence Day, in uscita il prossimo 4 di luglio.