Giorno dopo giorno si amplia l’assortimento degli «strumenti» non convenzionali impiegati negli appuntamenti della Biennale Musica 2022. Dopo la vela, l’argano, la vasca piena d’acqua, le pile di mattoni, il cannone e la pistola del Jules Verne di Battistelli, ci sono stati i sassi di Reaching Out del praghese Ondrej Adámek e della giapponese Rino Murakami: due pezzi del primo e uno della seconda che si snodano in un insieme senza soluzione di continuità, interpretati, in uno stringente mix di elementi espressivi, da due danzatori, due percussionisti e da sei voci che utilizzano varie tecniche ma contribuiscono anche all’animazione coreografica. Tre pezzi imperniati su materiali diversi: il primo, di Adámek, è su poesie dell’islandese Sjón che parlano dell’energia arcaica delle pietre e dei rapporti dell’uomo con la pietra; e – non senza riferimento all’evangelico «chi è senza peccato scagli la prima pietra» – dei sassi sono in scena e vengono percossi dai performer diventando un elemento della musica.

POI È STATA la volta della croccante mela rumorosamente sgranocchiata dalla soprano Esther-Elisabeth Rispens nei gustosi 7 crimes de l’amour ( ’79) per una cantante, clarinetto e percussioni di Georges Aperghis, che come il compianto Mauricio Kagel è uno dei compositori che hanno fatto la storia del «teatro strumentale». Questo e altri tre lavori di Aperghis sono stati interpretati – nel senso più pieno del verbo – da quattro giovani selezionati dalla Biennale College, che si ripropone di valorizzare nuovi talenti: musicisti – oltre alla soprano il percussionista Federico Tramontana, l’arpista Dafne Paris, la clarinettista Kathryn Vetter – che si sono formati per rispondere alle esigenze di brani contemporanei che appunto richiedono non solo perizia sul piano strettamente strumentale, ma anche sensibilità performativa e teatrale.

Tre pezzi imperniati su materiali diversi: il primo, di Adámek, è su poesie dell’islandese Sjón che parlano dell’energia arcaica delle pietre

Eccellente la resa di Tramontana di Graffitis, in cui mentre agisce sulle percussioni il performer deve prodursi anche con la voce, in una lingua inventata da Aperghis e in passaggi in tedesco dal Faust di Goethe. Brillante Dafne Paris in Fidelité, in cui delle «scene da un matrimonio» sono rappresentate dalla sola arpista – ma con una presenza maschile muta, il marito – accompagnando alla parte strumentale un parlato-recitato con molti registri ed emotivamente denso: un pezzo che richiede una notevole dose di concentrazione per gestire contemporaneamente esecuzione all’arpa e performance vocale/attoriale.

DOPO APERGHIS, la serata si è conclusa con un momento di Hirn & Ei (2010) della tedesca Carola Bauckholt – a suo tempo allieva di Kagel – con cui per quanto riguarda «strumenti» non convenzionali si è toccato un punto decisamente singolare: i quattro interpreti iniziano la performance mettendosi dei giacchini a vento in tessuto sintetico gore-tex, poi cominciano a tirare su e giù le lampo con varie combinazioni ritmiche, quindi a sfregare le maniche, eccetera. Una bella sollecitazione ad essere sensibili a tutta la musica, a tutto il suono, che abbiamo intorno, o, addirittura, addosso.

ALTRI STRUMENTI non convenzionali con il trio di percussioni Ars Ludi, già protagonista del Jules Verne e fresco di Leone d’Argento. Prima Orazi e Curiazi, classico di Battistelli del ’96, che evoca l’epico duello in un confronto di due percussionisti che prevede elementi teatrali, come i versi bellicosi e le posture di sfida dei due performer: ma qui le percussioni sono ortodosse. Poi Dressur di Kagel (’77), per trio di percussionisti con strumenti di legno: un lavoro – che porta sul terreno, tipico di Kagel, del teatro dell’assurdo – in cui i tre di Ars Ludi spaziano dalla marimba alla sedia impagliata, dal crepitacolo tradizionale mongolo a grossi zoccoli tipo quelli olandesi. Calorosissima la risposta del pubblico.
Già l’anno scorso la Biennale Musica diretta da Lucia Ronchetti aveva cominciato a sviluppare una linea di riflessione non passatista su Venezia e sulla sua tradizione musicale: formidabile in questo senso The Return, del danese Simon Steen-Andersen, dinamicissima, scanzonata, a tratti esilarante rivisitazione del Ritorno di Ulisse in patria di Monteverdi, con grande intreccio di registri e significati, come il rinvio continuo fra musica e interpreti in carne ed ossa al Teatro Piccolo Arsenale e le riprese effettuate negli spazi appunto dell’Arsenale, e il tema della caducità delle cose umane che serpeggia nel libretto e che si rispecchia nel leitmotiv della ricerca del teatro veneziano, oggi solo un fantasma, in cui l’opera fu presentata nel 1640.