Hadas Ben Aroya – 33 anni, tre cortometraggi e due lungometraggi, regista, attrice, sceneggiatrice, produttrice – è uno dei più alti talenti del cinema odierno. Israeliano e internazionale. Le sue immagini possiedono una rivoluzionaria tensione sessuale attraverso la quale descrivere la superficie e le viscere di una generazione, quella dei coetanei dell’autrice colti in un perenne vivere sospeso, costantemente sul bordo tra la caduta e il reggersi, erranti, in piedi. Cinema politico, quindi, quello di Ben Aroya, e desiderante, nel quale l’instabilità sociale, le problematiche, le esperienze di giovani donne e uomini assumono forma, consistenza, vertigine nell’instabilità dei corpi, nell’attrazione e negli abbandoni, nel concedersi fluidi a un gioco erotico in una sfida infinita a se stessi e agli altri che la cineasta israeliana filma fino allo sfinimento e, non potrebbe essere diversamente, che non può chiudersi. Ben Aroya si congeda dai suoi personaggi lasciandoli aggrappati a un altro corpo, a un letto, stesi per terra in attesa che qualcosa di nuovo, una nuova esperienza, s’insinui nelle loro giovani vite e produca un’ulteriore mutazione nel loro percorso di conoscenza. Tutto questo esplodeva nell’opera prima People That Are Not Me, del 2016. Tutto questo ri-esplode, come in un nitido proseguimento e, al tempo stesso, una svolta, in All Eyes Off Me (in prima italiana domani al festival Sguardi Altrove di Milano).

IL FILM è diviso in tre fasi, più che capitoli, numerate, ognuna delle quali abitata da personaggi in transito e ambientata in interni. Danny ha i capelli corti, entra in una casa dove c’è una festa, cerca Max: è incinta e vuole dirglielo. Luci al neon, musica a tutto volume, alcol e qualche droga. Si parla di maternità e aborto. Danny e Noa si scambiano baci carnali. Nella confusione Danny trova Max con la nuova fidanzata Avishag e non riesce a comunicargli la novità. Max e Avishag diventano protagonisti del secondo segmento, lo sguardo si concentra sulla lotta tra sessi che mettono in atto e il piano sequenza, segno ricorrente del film, esplora, da vicino o distante, quei corpi dibattersi in scene di sesso esplicite e rappresentate nei dettagli con un punto di vista femminile e femminista. Il piano sequenza significa per Ben Aroya lasciare che le attrici e gli attori e i loro corpi si cerchino e esplorino reinventandosi in uno spazio dove il teatro della finzione sconfina nella dimensione documentaria.

COSÌ COME Avishag scivola da un appartamento all’altro entrando, nell’ultima parte del film, in quello di Dror, uomo che vive da solo e ogni tanto la chiama per occuparsi del suo cane. Lei spinge quell’incontro verso una direzione inattesa, e allo stesso modo fa Dror. E Ben Aroya, nella continuità assoluta della sua ricerca, dà una svolta potente: i corpi si seducono ma poi non si toccano, rimangono sdraiati e in silenzio per un minuto, il conto alla rovescia cronometrato da un cellulare. Cosa accadrà quando si sarà arrivati allo zero, dopo l’ultimo secondo?
Come in People That Are Not Me (dove era anche attrice nel ruolo principale), Hadas Ben Aroya accumula, con una flagranza visiva che ammalia e depista, una serie di «incontri ravvicinati» che hanno per protagonisti giovani di Tel Aviv (e, nel suo esordio, la città stessa) con le loro solitudini, fragilità interiori, tenerezze, gesti perpetui che la regista vorrebbe non smettere mai di filmare, dopo averli attivati, ricorrendo appunto al piano sequenza e ai movimenti che si creano all’interno dell’inquadratura, espansi, in-certi, a formare una danza della macchina da presa e di chi è filmato. C’è il rumore e c’è il silenzio, ci sono musica e parole, oppure c’è la loro assenza. Sempre, un’apnea nella quale Ben Aroya immerge il suo cinema. Un cinema moderno, anche nell’uso delle tecnologie (gli schermi dei telefoni divengono spazi diegetici), ma inondato da tracce filmiche storiche (il muto, le nouvelles vagues, il porno). Senza che ciò voglia mai dire assuefarsi a un déjà vu. Al contrario, inventare sempre immagini originali, cercare interpreti capaci di reggere la tensione erotica, dare senso a ogni fotogramma. Disorientare. Ciò cui il cinema dovrebbe sempre tendere.