Mentre diversi parchi archeologici come Paestum e Pompei hanno già riaperto al pubblico offrendo itinerari fissi e sorvegliati, altri luoghi della cultura si preparano ad accogliere i visitatori. Il 1 giugno sarà la volta del Colosseo, che ha siglato un protocollo sanitario con la Asl Roma 1. Il Museo delle antichità egizie di Torino ha scelto invece la festa della Repubblica per ritrovare, con una giornata a ingresso gratuito, tutti gli appassionati. Stessa data anche per il Museo archeologico nazionale di Napoli che, seguendo la tendenza generale, propone biglietti scontati e abbonamenti speciali. Moltissime restano però le istituzioni che devono progettare la ripartenza barcamenandosi tra ristrettezze finanziarie, necessità di investimenti per il rispetto delle misure di sicurezza (acquisto di termo scanner, sanificazioni) e tutela economica del personale. Tra quest’ultime c’è il Museo delle navi antiche di Pisa, allestito all’interno degli Arsenali medicei, che il 16 giugno celebrerà un anno dalla sua inaugurazione (riaprendo al pubblico il 19).
Nato dopo un lungo percorso di ricerca e restauro – i frammenti della prima nave, nei pressi della stazione ferroviaria di San Rossore, vennero alla luce nel 1998 – ospita oggi sette imbarcazioni, per lo più integre, di epoca romana – tra cui la splendida Alkedo, nave ammiraglia da 12 rematori – databili tra il III secolo a.C. e il VII secolo d.C.
Abbiamo chiesto ad Andrea Camilli, che cura la direzione scientifica del museo (la gestione è affidata alla cooperativa Archeologia) di rispondere ad alcune domande.

Il direttore scientifico del museo pisano Andrea Camilli

Quali obiettivi si pone il Museo delle navi per l’imminente ripresa delle attività?
L’emergenza sanitaria ha rivelato le falle della politica dei grandi attrattori, che catalizzano i nove decimi delle risorse del Mibact, facendo riscoprire l’importanza delle comunità locali e del patrimonio diffuso nello sviluppo del turismo culturale. È dunque al rafforzamento del legame con il territorio e al consolidamento della funzione sociale del museo che dovremo lavorare. D’altra parte, questi sono stati i nostri obiettivi fin dal principio e i dati del 2019 – relativi al periodo tra giugno e dicembre – mostrano che su 21mila visitatori la stragrande maggioranza proveniva dal suolo nazionale. I residenti a Pisa sono risultati più di 1600. Anche la risposta delle scuole è stata altamente gratificante con 2500 presenze tra studenti, insegnanti e under-18. La riapertura del museo consentirà inoltre di portare a termine alcuni progetti come il trasferimento del Centro di restauro del legno bagnato – ora alloggiato nei capannoni industriali di San Rossore – presso l’ex convento di San Vito adiacente agli Arsenali, in via di ristrutturazione con fondi Mibact. Si tratta di una realtà riconosciuta a livello internazionale nel settore del restauro delle sostanze organiche, che aspira a diventare un punto di riferimento sia in ambito universitario che di formazione professionale. Abbiamo poi in programma il potenziamento dei servizi aggiuntivi al museo e la costituzione di una «biblioteca del mare» dedicata all’archeologia navale e subacquea (e al restauro), per la quale sono già state effettuate delle donazioni.

Nell’ottica di radicamento del patrimonio in seno alla società civile, possiamo affermare che il Museo delle navi rappresenti la memoria più antica della città?
Assolutamente sì. Pisa non ha mai avuto un museo archeologico e abbiamo voluto superare il tema delle navi, di per sé affascinante, inserendolo nella storia della città. Questo ha comportato il recupero di gran parte dei reperti provenienti da Pisa, o almeno di quelli che è stato possibile spostare nella nostra sede, dai differenti depositi o esposizioni sparsi per la Toscana. Uno sforzo particolarmente apprezzato dalla cittadinanza.

Quale spazio occupa la storia di Pisa nel quadro dell’esposizione?
La prima delle otto aree tematiche (le sezioni sono 47 e gli oggetti distribuiti su una superficie di quasi 5000 mq circa 800, ndr) intitolata «La città tra i due fiumi» è rivolta alla storia di Pisa dalla preistoria all’arrivo dei Longobardi. La seconda si chiama «Terra e acque» ed è una sorta di divagazione marxiana attraverso la quale viene tracciata la storia economica dell’area. Da qui s’introducono l’utilizzo dei porti, lo sfruttamento scriteriato delle risorse naturali, specie con il disboscamento intensivo, il dissesto idrogeologico e quindi le alluvioni. In questo contesto emerge il racconto della scoperta delle navi, del loro scavo e di tutte le problematiche legate alla costruzione navale, alla navigazione e al commercio.

Nel Museo delle navi ci sono poche vetrine. A cosa si deve questa scelta?
Abbiamo voluto eliminare il «feticismo del reperto». L’allestimento è stato concepito in maniera tale che i materiali siano visualmente raggiungibili. Sembra quasi di poterli toccare, anche se il gesto fisico non può concretizzarsi. Questo artificio mette il visitatore in una condizione di familiarità con l’oggetto, fa in modo che lo senta davvero suo, senza intermediazioni che amplifichino, anche psicologicamente, le distanze.

Il concetto di «prossimità» si riflette anche nell’utilizzo limitato delle nuove tecnologie «in situ»…
A mio parere, le tecnologie digitali devono essere innanzitutto sostenibili. Un museo ha delle caratteristiche di stabilità finanziaria sul medio e lungo periodo che differiscono da quelle della mostra temporanea. Le applicazioni tecnologiche sofisticate non sono adatte alle esposizioni permanenti perché richiedono attenzione e manutenzione costanti, con dei costi che difficilmente una struttura museale può permettersi. Non a caso, in molti musei, ci si imbatte spesso in schermi non funzionanti. La nostra filosofia è stata quella di utilizzare le nuove tecnologie in fase di progettazione, per ricostruire virtualmente contesti o reperti lacunosi e poi realizzarne modelli reali (o parzialmente reali) in scala ridotta. Abbiamo infatti preferito puntare su plastici e diorami, che – distribuiti lungo l’intero percorso – favoriscano un contatto diretto tra utente e oggetti. L’impiego di materiali antichi nell’ambito dei diorami aumenta la drammaticità della ricostruzione, rendendola a mio avviso più coinvolgente di un’immersione virtuale in 3D.

Per quel che concerne invece le tecnologie online, investirete nei tour virtuali che il Mibact – seppur smentito da dati recentemente diffusi – considera uno strumento indispensabile per affrontare il calo degli ingressi?
Credo che la fidelizzazione attraverso il video non interessi e che non ci sia niente di più triste di una visita virtuale. Diverso è il discorso legato ai social network. Nella pagina Facebook del museo proponiamo dei brevi e sintetici «spot» su materiali rilevanti e simbolici. Nei mesi di chiusura ci siamo rivolti spesso anche al pubblico dell’infanzia, ideando album con reperti da colorare liberamente scaricabili o tutorial per realizzare, ad esempio, una tabula lusoria romana. Queste iniziative hanno avuto un notevole riscontro, con molte condivisioni. Ora pensiamo a predisporre in sicurezza percorsi di fruizione dei nostri spazi e un programma di conferenze e spettacoli da svolgersi nel cortile all’aperto. Teniamo particolarmente a rilanciare anche la collaborazione con le scuole, settore fra i più penalizzati dalle conseguenze della pandemia.

Nei sei mesi successivi all’inaugurazione, il Museo delle navi è stato raggiunto da 1400 stranieri di cui quasi la metà provenienti da Francia, Germania, Spagna e Olanda, un quinto dal Regno Unito e un quinto da Stati Uniti, Russia e Australia. È il risultato di un circuito tra città d’arte – penso alla vicinanza con Firenze – oppure un guadagno «personale» da coltivare per quando i movimenti tra paesi torneranno a normalizzarsi?
Il museo nasce da un’idea di Paolo Fontanelli, sindaco di Pisa dal 2013 al 2018, il quale aveva immaginato un modello di turismo che potesse sostituirsi al «mordi e fuggi» connesso alla Torre. Tuttavia, negli ultimi anni la città è stata fortemente danneggiata dal sostegno all’aeroporto di Firenze, che ha causato il declassamento di una delle basi low cost più vivaci del centro Italia. In conseguenza di ciò, sono stati annientati quei piani di valorizzazione del museo stabiliti di concerto con lo scalo pisano. Ritengo dunque di poter dichiarare che chi si spinge fino agli Arsenali medicei lo faccia perché interessato alla straordinaria storia delle navi che gli archeologi hanno sottratto all’oblio.