Cessione o liquidazione, dopo sei mesi di amministrazione straordinaria con prestito ponte chiesto alle Ue. Questa sarà la linea del governo secondo il ministro Calenda, l’unico a commentare nel merito la situazione Alitalia. Aggiunge che non ci sarà nazionalizzazione perché «gli italiani sono contrari». Lo aveva già detto il ministro del Lavoro Poletti, escludendo qualsiasi possibilità del genere. Alitalia è e resterà un’azienda privata e il governo può solo aspettare «le decisioni degli azionisti». Però si farà il possibile «per ridurre al minimo le sofferenze di tutti». Come? «Con quel che la legge prevede». Sino agli ammortizzatori il governo arriva, oltre non sa andare.

Va da sé che né dal governo né dal primo partito di maggioranza arriva neppure un accenno critico alle proprie scelte. Hanno sbagliato i lavoratori. Il renzianissimo senatore Esposito, già assessore ai Trasporti a Roma con i risultati noti, li accusa di aver votato No, «pensando di affondare così la compagine privata per fare arrivare lo Stato-Pantalone». Un altro senatore e pasdaran renziano, Michele Anzaldi, accolla la tragedia «alla strumentalizzazione di alcuni super-tutelati che verrà pagata dai meno tutelati».

Ma checché ne dica Poletti, la palla è invece nelle mani del governo, che nel giro di due o tre giorni dovrà nominare uno o più commissari, e probabilmente sceglierà la via del commissario unico, con Dubitosi e Laghi in pole position. Sarà poi il commissario a indicare la strada ed eventualmente a presentare quel nuovo piano industriale richiesto sia dalle segretarie della Cgil e della Cisl Camusso e Furlan che dalla sindaca di Roma Raggi. E non lo farà certo senza il pieno coinvolgimento del governo.

Del resto, quanto la partita fosse importante per palazzo Chigi lo aveva già chiarito Gentiloni, con il suo quasi inaudito appello ad approvare l’accordo pronunciato a urne praticamente aperte. La situazione è delicatissima sia in sé, per l’importanza anche simbolica della compagnia di bandiera, sia da un punto di vista politico complessivo. Nella eterna ed eternamente fallimentare vicenda Alitalia è coinvolto davvero tutto l’establishment italiano: la politica di ieri e di oggi, a tutto campo, le banche, i grandi manager, i sindacati. Per certi versi il voto Alitalia è deflagrante quanto quello del referendum di dicembre e forse anche di più, perché qui sono coinvolti proprio tutti. Il tentativo di far precipitare responsabilità decennali che coinvolgono l’intero assetto di potere sui lavoratori voto non solo rasenta l’oscenità: è anche un alibi troppo fragile per reggere.

M5S non si lascia sfuggire l’occasione per mettere sotto processo l’intero sistema schierandosi senza riserve dalla parte dei lavoratori e del loro voto: «È stato il referendum della liberazione. I dipendenti Alitalia hanno dimostrato che la dignità vale più di ogni ricatto occupazionale». Qualche ora dopo, però, Di Maio coglie l’occasione per rilanciare la sua crociata: «I sindacati, al solito…». Salvini si accoda: «Lavoratori vittime di governo, manager e sindacati». Né M5S né la Lega, però, si azzardano a chiedere l’intervento pubblico.
Lo fa da sinistra Fassina per Si; perché «il fallimento non è un destino irreversibile» mentre Bersani difende i lavoratori che «non sono irresponsabili», chiede al governo di «nominare ad horas il commissario» per «trovare una traiettoria» ma di intervento pubblico non parla.