Alitalia non ha mai dominato i cieli del mondo. Ma alla fine anni degli anni ’80, la nostra compagnia di bandiera si era conquistata un posto di tutto rispetto nel settore del trasporto aereo mondiale. Nata nel 1957 dentro l’Iri, in trent’anni diventa un importante gruppo di quasi 22.000 addetti, con una flotta di 133 velivoli, più di 16 milioni di passeggeri all’anno, capace di generare un fatturato pari a quello di Klm, e all’incirca la metà di quello di Air France, Lufthansa e British Airways. In quel periodo l’IRI sostenne lo sviluppo di una compagnia aerea internazionale, d’importanza strategica per il turismo intercontinentale ma altrettanto fondamentale per l’indotto meccanico-aerospaziale italiano. I risultati finanziari, scontate le perdite degli anni ’70 dovute all’aumento del costo del carburante, furono sostanzialmente positivi fino al 1988.
PASSANO ALTRi trent’anni, ma la parabola di Alitalia diventa discendente. Quando nel 2017 viene sottoposta al regime di amministrazione straordinaria, il numero di dipendenti è sceso a 12.000, la flotta è di 118 veicoli (di cui solo 26 a lungo raggio), i passeggeri sono aumentati a circa 21 milioni (una crescita annua inferiore all’1%, contro una tendenza globale superiore al 4%), con un fatturato di 3 miliardi di euro che fa impallidire rispetto ai 13,7 di British Airways, ai 25,8 di Air France–KLM e ai 38 miliardi di Lufthansa.

SIAMO DI FRONTE all’ennesimo caso di declino industriale italiano. Il punto di svolta avviene nei primi anni ’90, con le liberalizzazioni delle linee aeree internazionali. In seguito si fa sempre più mordente la concorrenza dell’alta velocità ferroviaria sulle tratte interne e diventa letale la comparsa delle low cost nel mercato continentale. In Italia è la stagione più intensa delle privatizzazioni, che travolge l’Iri sconvolgendone le sue storiche funzioni di indirizzo industriale. Alitalia viene abbandonata al suo destino, priva di una strategia globale. Nel 2000 la maggioranza di controllo passa al Tesoro, prima che si arrivi alla privatizzazione del 2007: dalle mani della finanziaria Cai, partecipata da banche, assicurazioni, varie famiglie industriali (Colaninno, Benetton, Riva, ecc.), fino all’ultima gestione con Etihad del 2014. Nel frattempo, si sono perse le occasioni di imbastire partenariati strategici (con Klm) e di realizzare un hub internazionale a Malpensa. Si è ciecamente rinunciato a puntare sulle tratte intercontinentali, dove il mercato cresce in misura più dinamica. I voli interni e continentali si sono svuotati, gonfiando i costi per passeggero, creando voragini nei conti economici. Alitalia è diventata un tipico caso di socializzazione delle perdite. Negli ultimi vent’anni, gli oneri a carico del bilancio statale sono ammontati a circa 6,8 miliardi di euro (di cui quasi tre quarti incorsi nell’ultima fase a gestione privata), rispetto a 1,8 miliardi del precedente periodo IRI (1974-1999), che aveva peraltro raggiunto importanti risultati industriali.

CI TROVIAMO oggi all’alba di un’ennesima soluzione pasticciata. Sembrerebbe tornare lo Stato con il 15% del Mef più il 35% di Ferrovie dello Stato, con l’americana Delta e un altro partner industriale privato. Ma ancora una volta si cercano i capitali prima di aver concordato un piano industriale di lungo periodo, a cui i privati sembrano poco interessati. Ferrovie dall’altro lato, pur potendo favorire la razionalizzazione del sistema di trasporti interni, non avrebbe competenze gestionali nel settore aereo e si troverebbe costretta a dirottare risorse interne altrimenti destinabili allo sviluppo dell’alta velocità e al rinnovo del trasporto regionale.
Liquidare Alitalia non dovrebbe essere un’opzione. Il presidio delle tratte internazionali del trasporto passeggeri e le interdipendenze che una compagnia aerea domestica attiva sul territorio sono elementi di strategica rilevanza per un Paese come il nostro, primo al mondo per siti Unesco e forte nella meccanica delle manutenzioni.

PER RILANCIARE Alitalia occorre evitare soluzioni ibride e di corto respiro. Una temporanea nazionalizzazione al 100% impegnerebbe lo Stato a farsi carico di un paziente ma ambizioso progetto di riposizionamento strategico, da articolare rispetto al resto del sistema nazionale di trasporti. Quello che oggi manca però è una struttura di gestione e di indirizzo alla Iri, che poteva coordinare lo sviluppo di più settori complementari, come le autostrade, il trasporto aereo e quello marittimo.

OCCORREREBBE ricostituire una cabina di regia della politica industriale, che anteponga dei piani di sviluppo di lungo periodo ai ripetuti interventi emergenziali. Abbandonare Alitalia all’inerzia e poi al destino di gestioni private inadeguate è costato troppi denari pubblici, posti di lavoro e competenze industriali. Non semplicemente lo Stato, ma un nuovo modello di Stato imprenditore e pianificatore deve tornare protagonista per riscattare l’industria italiana dal suo inesorabile declino.

* University College of London- Institute for Innovation and Public Purpose