La sparizione di un padre e il buco nero della perdita che una figlia ha cominciato a scoprirsi dentro a soli undici anni. Poi, una volta divenuta adulta, accanto a quel vuoto, il peso del passato, un Paese d’origine – un tempo parte dell’URSS – lasciato indietro e così la sua lingua madre. Su tutto la visione del mare della Turchia: lì dove, forse per un naufragio, si sono perse le ultime tracce dell’uomo, e lì dove lei insegue iridescenze di dolore dolcezza e luce, le intermittenze di una memoria lacerata.

Il vissuto della scrittrice bielorussa Aliona Gloukhova e la sua ricerca della figura paterna tra le pagine di un suo romanzo in divenire è l’albero centrale da cui si irradia Notre endroit silencieux – visto al Trieste Film Festival – che è al tempo stesso un appassionato dialogo in francese (per iscritto in sovrimpressione e in voice over), con l’amica Elitza Gueorguieva, regista bulgara del documentario. Questo perché le due donne, dopo aver lasciato ciascuna il proprio Paese per la Francia, si sono conosciute lì a un corso di scrittura per stranieri.

Dunque, Gloukhova scandaglia quel limbo tra vita e morte, sofferenza e immaginazione, che è il trauma della sparizione di un genitore, intessendo potenziali vite letterarie del padre e bagliori di ricordi di come era realmente: ossia un uomo pieno di humour, insofferente all’università da cui era stato espulso, così come al partito, un uomo afflitto dall’alcolismo e desideroso di evadere dalla chiusura del luogo (prima del crollo dell’URSS era difficilissimo avere il passaporto per viaggiare oltre la Cortina di ferro e dopo la Bielorussia resta l’unico Stato a mantenere un regime comunista). E ancora il padre, che il giorno dell’esplosione a Chernobyl lavorava in un laboratorio e aveva tracciato una mappa della radioattività nell’intero Paese.

Ma da questo pedinamento fatto di fotografie, taccuini di appunti, di una sopravvissuta maglietta da marinaio, a immaginare l’amata figura per le strade contemporanee di Minsk – dove si protesta contro Lukashenko – fino allo scenario ultimo del mare di Istanbul, si diparte in modo sempre più ampio il fuoricampo del passato delle due amiche, il dolore per un improbabile ritorno nei loro luoghi d’origine, una proustiana madeleine d’angoscia assaporata nell’infanzia in Bulgaria per Gueorguieva, e l’abbandono delle loro lingue madri.

Ma come non essere sopraffatte dall’onda della sofferenza e del dramma?
È allora che tra nuvole e cieli, stormi e passi su un selciato di foglie – attraverso una tela sensibilissima di parole e immagini, di cinema e letteratura – insieme ricercano in una comune lingua terza non solo la possibilità di una distanza emotiva dal proprio idioma nativo, ma anche la chance di avventurarsi per sentieri inesplorati di resistenza linguistica, dove parole come «trauma», «sradicamento», «erranza», «marginalità», invece che vicoli ciechi deprivativi, possano diventare semi di poetici e insostituibili germogli di visione.

Così avviene che il francese, lingua di dominatori ma anche lingua di accoglienza degli esuli, diventi lingua «deterritorializzata» ed espansa attraverso l’apporto delle minoranze. (Nel film si cita il caso di Ágota Kristóf e, per il tedesco, di Kafka, grazie alle analisi di Deleuze e Guattari).

Grazie a questa gestazione artistica a due, a questo «utero silenzioso» che un ritorno trasformativo diventa possibile – da qui il titolo del romanzo di Aliona Dans l’eau je suis chez moi – i dettagli delle persone e dei luoghi amati travalicano il muro della disattenzione e del rimosso per farsi inenarrabilmente vivi e presenti.