Alice Munro, celebrata scrittrice canadese, vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 2013 in quanto «maestra del racconto breve contemporaneo» è deceduta ieri all’età di 92 anni nella sua casa di Port Hope sul Lago Ontario, a est di Toronto. Con lei scompare una delle ultime grandi protagoniste di quella straordinaria stagione letteraria che, a partire dagli anni sessanta, è stato il Rinascimento canadese, caratterizzato da un accresciuto nazionalismo culturale, da una più marcata caratterizzazione al femminile della letteratura, da un accentuato sperimentalismo alla ricerca letteraria e, soprattutto, un più frequente ricorso alla forma della short-story, con più di 1100 racconti pubblicati tra il 1960 e il 1973 e decine di antologie.

È in questo clima e accanto a scrittrici quali Margaret Atwood, Margaret Laurence, Mavis Gallant, Marian Engel e Audrey Thomas, che Alice Ann Munro, née Laidlaw, nata e cresciuta a Wingham, un piccolo villaggio dell’Ontario occidentale, dove il padre, discendente del poeta e scrittore scozzese James Hogg, aveva un allevamento di tacchini, si forma, divenendo una attenta osservatrice di quel mondo chiuso e per molti versi soffocante che è il Canada rurale durante e dopo la Grande Depressione. Quell’Ontario occidentale, i cui abitanti, soprattutto le donne, diverranno, a partire dai primi racconti giovanili, scritti durante gli anni universitari nella University of Western Ontario e pubblicati in alcuni periodici studenteschi, protagonisti di uno straordinario universo in cui si confrontano con situazioni, il più delle volte complesse e stranianti, dove il fantastico sembra farsi quotidiano. Racconti, al centro dei quali, con il trascorrere del tempo, si collocheranno sempre più figure di donne, colte nei diversi momenti della loro esistenza, costrette, nel bene e nel male, a confrontarsi con desideri complessi che le rendono personaggi straordinari e unici, le cui vicende, reali e psicologiche, travalicano l’elemento locale e personale per farsi universali. Tutto questo lo si vede già nel 1968 con la raccolta di esordio, La danza delle ombre felici (La tartaruga, 1994) che le procura il consenso della critica e le fa vincere il prestigioso Governor General’s Award. Nel 1971, è la volta di La vita delle ragazze e delle donne (Einaudi 2018), anche qui una serie di storie apparentemente ordinarie tra loro interconnesse e presentate in forma di romanzo, il più prossimo al genere autobiografico.

Una forma, quella romanzesca con la quale però non si trova a proprio agio, vittima dell’insicurezza e della presunta incapacità a gestire strutture più articolate e complesse, che la porta a rifugiarsi – senza mai tornare indietro – nel racconto di cui diverrà per l’appunto “maestro” indiscusso. Lo testimoniano le opere successive, quasi tutte ambientate in Ontario, e costantemente imperniate sui conflitti passionali della quotidianità. Tra esse ricordiamo, nel 1974, Una cosa che volevo dirti da un po’ (Einaudi, 2016), nel 1978, Chi ti credi di essere (e/o, 1995), nel 1986, Il percorso dell’amore (Serra e Riva, 1989), nel 1990, Stringimi forte, non lasciarmi andare (La tartaruga, 1998) e nel 1998, Il sogno di mia madre (Einaudi,2001). A partire dagli anni 2000, l’attenzione della scrittrice che ha ormai attuato una vera e propria rivoluzione nell’architettura del racconto, riuscendo a mantenere in un miracoloso equilibrio la apparente e banale semplicità del quotidiano e la complessa realtà psicologica che la sottende, si volge senza rimpianto e con sottile ironia a indagare l’altrettanto complessa realtà della mezza età, tracciando ritratti di donne per lo più sole che si configurano come specchio e riflesso di una condizione generale di insicurezza e di una ormai inevitabile precarietà di ogni progetto di vita, l’ineluttabile cifra della società contemporanea. È il caso di Nemico, amico, amante…(Einaudi, 2003), In fuga (Einaudi, 2004), Troppa felicità (Einaudi, 2011), in cui si confronta con i temi dell’amore e della morte ma soprattutto di La vista da Castle Rock (Einaudi, 2007), dove recupera – come anche in Uscirne vivi (Einaudi, 2014) -, il tono autobiografico e torna ad affrontare le tematiche inerenti la propria famiglia. Il tutto con una straordinaria eleganza di stile, con una compattezza di rara fattura, con una densità morale, emotiva e anche storica che è propria solo dei grandi romanzi, nella quale neppure una parola è superflua e dove, nella maggior parte dei casi, riesce a raggiungere la perfezione, quella perfezione stilistica, linguistica, strutturale che la rendono e la renderanno unica nel panorama della letteratura contemporanea e non solo. Certo è strano che una persona così timida e insicura, almeno come la ricordo in un incontro di tanti anni fa, capace di rifiutarsi di andare a ritirare il Nobel e di tenere la conferenza di rito, sostituendola con una lunga intervista registrata, abbia trovato nella dimensione della scrittura il suo esatto opposto, una grandezza e una unicità universalmente riconosciuta e non solo nell’attribuzione del Premio Nobel che le riconosce “la capacità di condensare tutta la grande epica del romanzo in poche pagine” ma soprattutto nell’apprezzamento di tanti colleghi scrittori che di Munro hanno fatto un modello e un punto di riferimento ineludibile, arrivando ad accostarla (e non certo per piaggeria) a Čhecov, James Joyce e William Faulkner.