Il fatto che in Irlanda la letteratura non prescinda mai dalla storia è di una evidenza inconfutabile: storia e società figurano sempre in primo piano anche nell’opera degli scrittori irlandesi più concentrati su questioni stilistiche. Yeats, ad esempio, poeta e senatore dello Stato Libero d’Irlanda, antecedente della attuale Repubblica, persino nei suoi slanci stilistici più rarefatti – dalle poesie della maturità a quelle celticheggianti degli inizi – sarebbe difficilmente interpretabile senza una attenta ricognizione che investa anche il genere politico della sua «missione poetica», ovvero il suo intento di plasmare la coscienza di una nazione. Persino Joyce, altro grande sperimentalista sebbene con una precisa linea «d’azione» ispirata a John Henry Newman, fu attentissimo sin dagli inizi della sua carriera all’eleganza della prosa, e Seamus Heaney ha scritto poesie sul nord (dell’Irlanda, e dell’Europa) che sono anche archeologia della psiche di un popolo: sepolta, silenziata fossilizzata sotto strati e strati di torba.

A partire dal boom economico degli anni Novanta o poco prima, e sempre con uno stile assai poco conformista, un’altra generazione di romanzieri ha cominciato a raccontare il proprio paese, ora in preda all’euforia, ma che non aveva ancora risolto il rapporto con la religione, o con le relazioni familiari spesso assai disfunzionali.

Una comunità anni ’20
La generazione ultima – quella cui appartiene uno sperimentalista come Mike McCormack, che in Solar Bones scrive un romanzo di una sola frase – prova a tirare le somme, tentando di rappresentare la disillusione seguita a una ricchezza effimera già volata via, e d’altro canto instaurando un corpo a corpo con vecchi fantasmi, a cominciare dalla chiesa cattolica. Del resto, i tanti libri sugli abusi di preti e suore, si sono ormai consolidati in un vero e proprio filone, per quanto appaiano ripetitivi e prevedibili, nel migliore dei casi.

Alice McDermott non è una scrittrice irlandese in senso stretto: lo è la sua famiglia, che espatriò negli Stati Uniti, non lei che tuttavia resta attaccata nei suoi libri a qualcosa in più del vecchio proverbio ancora circolante nell’isola: «siamo tutti irlandesi agli occhi di Dio». Il suo ultimo romanzo, La nona ora (tradotto con grande eleganza da Monica Pareschi, Einaudi Stile Libero, pp. 272, e 17.50 ), sin dal titolo rimanda inequivocabilmente alla sfera religiosa, e in quella si muove con tragica levità, affidandosi a una narrazione sapientemente congegnata e a improvvisi sbalzi stilistici che seguono il diagramma delle emozioni in campo. Affrontando di petto grandi temi (il suicidio, la malattia, il rapporto madre-figlia, le insidie della vocazione religiosa), La nona ora riesce a funzionare da spartiacque del filone narrativo incentrato sulle velate ipocrisie e le conclamate ambiguità della spiritualità istituzionalizzata.

Dopo il suicidio
L’architettura del racconto si basa sullo lo sguardo rivolto al passato di una generazione che tenta di riscoprirlo, raccontando il proprio Dna familiare, all’interno di una vicenda che sembrerebbe nelle prime pagine irrimediabilmente fosca e per nulla foriera di aperture alla leggerezza, e invece si rivela essere altro.
Siamo negli anni Venti a Brooklyn, luogo di nascita di McDermott, in una nutrita comunità di emigrati irlandesi, il cui perno è ancora la chiesa cattolica. Tra loro, un padre di famiglia che si uccide lasciando la moglie e la figlia in balìa di una dislocazione emotiva aggravata dal fatto che i suicidi non sono destinati a riposare in terra consacrata: una vera onta per chi è irlandese. Della famiglia cominciano a occuparsi alcune suore di un convento, certe dimostrandosi più generose e benevole di altre, angeli del quartiere, a volte anche capaci di dare una compassionevole morte.

La piccola orfana Sally cresce facendo la spola tra la madre – che nelle pause di lavoro alla lavanderia del convento si concede a fugaci incontri con un signore irlandese sposato con una donna invalida – e le suore che gradualmente le insegnano come assistere le persone più sfortunate. Scatta, in Sally, o sembra scattare, una vocazione: ed è proprio da qui, da quel potenziale ripiegamento su un’esistenza lontana dal clamore, che nasce il tumulto della storia principale. Una storia di ripensamenti, di dubbi misti a granitiche certezze, di tentativi di bypassare le aspettative degli altri fino ad arrivare a scelte radicali, pur di preservare il rapporto tra la madre vedova e la figlia orfana.
Il romanzo, che incede con ritmo pacato ma inesorabile, alterna scene di assoluta desolazione materiale e morale a interludi di una comicità che induce al riso, scene che smuovono le acque e ci fanno tornare con i piedi per terra tramite un proficuo rimescolio di toni alti e bassi. Modificando continuamente la velocità del racconto, che passa dalla lentezza dell’introspezione al rincorrersi di sguardi disincantati sul reale, McDermott riesce così a marcare un cambio di passo nella rappresentazione, un po’ trita nei romanzi degli ultimi due decenni, del rapporto tra esistenza (irlandese) e religione (cattolica). È consapevole di parlare a un pubblico di Irish-American, ovvero di quella che viene definita la Greater Ireland degli espatriati, in grado, soprattutto dopo i tanti scandali in seno alla chiesa sia irlandese che americana, di osservare a distanza le stranezze e le forzature intrinseche a impalcature spirituali ipoteticamente deputate a controllare e regolare la vita secolare di uomini e donne.

Dinamiche ancestrali
Se fino a venti anni fa si sarebbe avvertito in maniera stridente il senso di rottura nei confronti di una tradizione in cui la Chiesa, nel bene e nel male, era ancora l’arbitro del negozio sociale, sia in Irlanda che nella Greater Ireland (data l’influenza del cattolicesimo in importanti diocesi americane come quella di Boston) ora non è più nemmeno questione di j’accuse; le suorine del romanzo escono dalla vicenda quasi vincenti nella loro insospettata umanità, mentre McDermott si conferma in grado di regalarci un racconto che affronta, senza tentare di smontarle, dinamiche quasi ancestrali alla base della nascita e della crescita di una comunità, volente o nolente sempre alla ricerca dei suoi tratti identitari.