In Italia, tutte le donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni devono sottoporsi a una mammografia ogni due anni per individuare tempestivamente il tumore al seno, di cui muoiono 12600 donne l’anno. La prevenzione gratuita e universale di una malattia grave sembra una delle buone pratiche per cui vale la pena difendere il servizio sanitario pubblico. La realtà però è diversa. Intanto, non si tratta di prevenzione ma di diagnosi precoce, perché lo screening non agisce sulle cause della malattia in cui si mescolano fattori genetici e ambientali. Inoltre, la percentuale di donne che accede realmente al programma è limitata e diseguale: dal 70% delle regioni del nord-est si scende al 30% di Campania e Calabria, con percentuali dimezzate tra le immigrate. Infine, anche la sua utilità oggi è in discussione.
Attenzione: non si discute l’esame in sé. «L’efficacia della mammografia è molto alta, resta un esame validissimo e molto utile» spiega Salvo Di Grazia. Più noto sul web come «Medbunker», Di Grazia è un medico e un divulgatore attento a denunciare le pratiche mediche poco supportate da evidenze, che ha raccolto in Salute e bugie (2014) e Medicina e bugie (2017) per l’editore Chiarelettere. «Attualmente la discussione riguarda la sua efficienza. Un’analisi realizzata in Canada su dati di 25 anni e quasi 90000 donne, poi confermata da altri studi, fa notare che la mammografia scopre quasi sempre un tumore ma non riduce quasi per niente la mortalità per questa malattia. In parole povere, scoprire la malattia con un programma di screening non aiuta la popolazione femminile a vivere di più».

UNO DEI MOTIVI della scarsa efficienza è che «leggere» una mammografia è difficile. Si rischia di vedere tumori dove non ce ne sono, avviando le donne a trattamenti invasivi e pesanti, oppure di non vederne uno realmente presente. Per ovviare al problema, i ricercatori della divisione Deep Mind di Google dedicata all’intelligenza artificiale (la stessa che ha insegnato ai computer a giocare a scacchi, go e StarCraft) hanno messo a punto una rete neurale capace di esaminare le mammografie e individuare segnali sospetti. L’algoritmo è stato confrontato con le diagnosi fornite dai medici in carne e ossa su un campione di quattordicimila mammografie nel Regno Unito e quattromila mammografie negli Usa. Il risultato è stato pubblicato nel primo numero del 2020 della rivista Nature, garanzia di qualità. L’intelligenza artificiale si è dimostrata all’altezza dell’esame umano nell’individuare i tumori, ma leggermente più brava nell’evitare i «falsi positivi», cioè macchie che sulla lastra sembrano tumori ma in una successiva biopsia non si confermano tali. Sarà dunque il computer a salvare una pratica sanitaria di dubbia utilità?

«La ricerca su alcuni media è stata un po’ troppo enfatizzata», frena Etta Pisano, professoressa a Harvard e radiologa esperta di mammografia digitale, che ha commentato la ricerca sulla stessa rivista. Il campione statunitense, su cui la rete neurale si comporta meglio dei medici, non è rappresentativo della popolazione reale. Negli Usa, inoltre, solo un radiologo esamina le mammografie, contro due medici in UK. Su un campione più rappresentativo e con un sistema sanitario pubblico più efficiente come quello inglese, l’intelligenza artificiale non batte gli occhi umani. Inoltre, la gara umano-macchina è truccata. A differenza del computer, i dottori non devono stabilire da una radiografia se una donna ha un tumore, ma solo se sottoporla a esami più specifici. Perciò, nel dubbio propendono per ulteriori analisi a favore della salute delle donne. Questo aumenta il numero apparente di falsi positivi, che però non si traducono necessariamente in inutili chemioterapie. L’inefficienza degli screening mammografici non è colpa di medici imprecisi, come potrebbe suggerire la ricerca di Google.

VINAY PRASAD, oncologo all’università dell’Oregon, da sempre denuncia dati alla mano l’inutilità di molti screening di massa: «Lo screening dovrebbe rilevare i tumori curabili», ha spiegato in una serie di tweet, «e non quelli innocui, benigni o incurabili» che, insieme ai falsi positivi, conducono a terapie dannose e stressanti i cui effetti collaterali annullano i benefici dello screening. «Non c’è modo di distinguere questi casi solo da una mammografia. Lo screening del cancro è troppo difficile». E non è privo di rischi, ricorda Di Grazia: «fare troppe mammografie, e troppo ravvicinate, significa assorbire una piccola ma significativa e ripetuta quantità di radiazioni, teoricamente e potenzialmente pericolose. Non abbiamo mezzi migliori per fare screening dei tumori mammari», spiega, «e poi la mammografia salva ancora moltissime vite. Diciamo che, passata l’esaltazione iniziale, oggi discutiamo e cerchiamo di capire come sfruttarne i benefici, su quale donna e con quale periodicità. È ciò che si dovrebbe fare per qualsiasi trattamento medico».
Secondo Luca De Fiore, direttore della casa editrice Il pensiero scientifico e autore di Conflitti di interesse e salute (2018, Il Mulino), non contano solo le ragioni della scienza. «I rischi di sovradiagnosi non sono conosciuti o sono trascurati», dice. «Regioni o aziende sanitarie presentano le campagne di screening come la dimostrazione di essere dalla parte dei cittadini, come con i “mesi della donna” o le facciate colorate di rosa. Inoltre, nelle società economicamente avanzate si promuove una medicina industriale che incentiva la domanda di prestazioni e interventi sanitari. La sanità diventa strumento per la crescita economica, talvolta a spese del progresso e della tutela dei diritti dei cittadini e delle cittadine».

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NOTIZIARIO

Finanziamenti occulti per la carne rossa

Lo scorso ottobre, la ricerca guidata da Bradley Johnston della Dalhousie University sosteneva che il consumo di carne rossa non è legato all’incidenza dei tumori; vi era tuttavia un conflitto di interessi. L’articolo aveva destato attenzione perché contraddiceva le linee guida internazionali che collocano la carne rossa tra le sostanze cancerogene. Il Washington Post ha segnalato che, due mesi dopo la pubblicazione su «Annals of Internal Medicine», gli autori hanno ammesso un finanziamento di 76mila dollari da parte di AgriLife Research, una divisione dell’università A&M del Texas sostenuta dall’industria della carne. Il responsabile della ricerca, Bradley Johnston, era già stato protagonista di un caso simile. Nel 2016, metteva in discussione le limitazioni al consumo di zuccheri nascondendo il finanziamento
ricevuto dall’International Life Sciences Institute, associazione a cui partecipano aziende come McDonald’s, Coca-Cola e Pepsi. (An. Cap.)

 

 

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La celiachia e i batteri

La celiachia potrebbe essere legata ad alcuni batteri intestinali. I ricercatori dell’Università Monash di Melbourne, Australia, sostengono che la risposta immunitaria scatenata dal glutine, una proteina presente nel grano, dipenda da un equivoco biologico: il glutine ha una forma molto simile alle proteine dei batteri del genere Pseudomonas e Bordetella. È possibile che i linfociti T, che riconoscono gli agenti patogeni, scambino il glutine per queste proteine e rispondano alla sua presenza attaccando la mucosa intestinale. La celiachia
ha un’origine genetica ma solo il 30% dei pazienti predisposti sviluppa la malattia. Ciò suggerisce che oltre al Dna ci siano altre concause scatenanti. In passato, era stato teorizzato anche che la celiachia dipendesse dalla compresenza di particolari virus. La scoperta è stata pubblicata sulla rivista «Nature» Structural and Molecular Biology. (An. Cap.)

 

 

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L’energia oscura non esiste?

Gli astronomi dell’università Yonsei di Seul hanno compiuto una scoperta che, se confermata, potrebbe rivoluzionare la teoria attuale dell’universo: la
luminosità delle supernove di tipo Ia (esplosioni di stelle giunte che hanno esaurito il combustibile per le reazioni nucleari) dipenderebbe dall’età della stella. In passato, la differenza di luminosità delle supernove era ritenuta la prova che l’espansione dell’universo stia accelerando sulla spinta della cosiddetta energia oscura, una teoria che aveva fatto vincere il premio Nobel del 2011 a Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess. Questa forma di energia non è mai stata osservata direttamente. La sua esistenza era ritenuta indispensabile dai teorici secondo cui essa costituisce il 68% di tutta l’energia dell’universo. Lo studio che la rimette in discussione sarà pubblicato in uno dei numeri di gennaio 2020 della rivista «Astrophysical Journal». (An. Cap.)