«Spesso mi chiedo che cosa ne sarebbe di tanta mitologia culturale contemporanea, se esistesse oggi un provocatore della stessa forza comica di Molière», scriveva Cesare Garboli in un pezzo giornalistico del 1986 uscito su Repubblica. Le parole, prese a prestito da Alfonso Berardinelli in un articolo del gennaio 2015 ora raccolto in Giornalismo culturale (il Saggiatore, pp. 976, € 32,00), sintetizzano con singolare efficacia non solo la vastità dei temi, ma anche la postura e il tono della silloge di articoli, selezionati dai curatori Marianna Comitangelo e Giacomo Pontremoli, tratti da vari quotidiani (soprattutto Il Foglio e il Sole 24 Ore) e usciti tra il 2013 e il 2020.

Fustigatore di ogni Tartufo, insofferente a qualsivoglia moda culturale, Berardinelli si diffonde in una prosa ironica e irregolare plasmata dalla sua brillante vis polemica, che trova nella predilezione della forma breve l’espressione più efficace. A proposito del genere saggistico/giornalistico sono offerte, all’inizio del volume – e da questo si ricavano la sapienza selettiva e il montaggio dei curatori nel ricostruire un ragionamento altrimenti sperso in mille rivoli –, alcune irriverenti riflessioni che ne respingono le declinazioni accademiche e ne accolgono invece le forme più vicine all’idea di saggio originaria, soggettiva e per molti versi informale (quella dei Saggi, appunto, di Montaigne). Il libro coglie le reazioni immediate del critico a fatti culturali (in senso ampio) che prendono la forma di un «diario in pubblico» e che fanno della brevitas una qualità straordinariamente incisiva, dove il pensiero si condensa in formule folgoranti e divertentissime. Come leggiamo nell’epigrafe di Lichtenberg alla premessa: «Mai scrivere un libro, quando basta una pagina». Ne seguono alcune affermazioni apodittiche, non sempre condivisibili, soprattutto se non si concorda con la visione politica liberale dell’autore.

I temi degli oltre 300 articoli sono i più disparati: dalla politica alla religione, dalla tecnologia all’editoria, dalla filosofia alla letteratura. Lo sguardo del critico non cede al luogo comune e, se lo fa, le sue argomentazioni non hanno nulla di stereotipato: non ha paura di concordare con i più, di cui tuttavia esplicita e analizza pensieri e sentimenti inconsci. Ha semmai timore – un timore forse un po’ misantropo e snobistico –, di convenire con gli intellettuali, soprattutto se organizzati in gruppi (quelli di un tempo). La vis polemica è in effetti strategica per la prosa giornalistica: Berardinelli non sopporta il gruppo ‘63 (descritto come una specie di ex teppa politicistica, che «di buon grado si autocelebra» ogni dieci anni), né il suo esponente di spicco, Eco (il «campione», colui che «di se stesso ne sa più di chiunque altro»); non comprende come la sinistra culturale, nel corso del secondo Novecento, abbia potuto subire l’infatuazione di quel «bel terzetto di farabutti teorici e doppiogiochisti» di Schmitt, Heidegger e Jünger, cui si aggiungono Derrida («Un monomaniaco che non riesce a chiudere la bocca») e, per la filosofia italiana, Severino («La sua pazienza nel ripetersi è illimitata») e Cacciari (annoverato tra gli «sproloquianti maniaci di filosofia teologica»).

D’altra parte la sequenza di articoli permette di desumere «in positivo» anche una sorta di personale canone letterario, che tra l’altro riflette la ben nota polemica di Berardinelli nei confronti della «romanzeria» (già argomentata in Non incoraggiate il romanzo, Marsilio 2011). I nomi che ritornano riguardano infatti per lo più la poesia, forma letteraria da incentivare nel presente: Patrizia Cavalli, Bianca Tarozzi, Alba Donati, Patrizia Valduga (e altre figure) eredi della linea antiNovecentista e «cuore caldo della poesia italiana» che meritano il «rischio» di essere lette.