I passi di Lisa e Giorgi si incrociano più volte quel giorno, e i loro piedi nel tentativo di evitarsi finiscono invece per inciampare gli uni negli altri. Un libro cade, ma noi non li vediamo in volto, e mentre un sussulto malizioso scompiglia la giornata che appare simile alle altre, la farmacia per Lisa, gli allenamenti di calcio per Giorgi, i loro pensieri seppure in modo vago sono già altrove. Cosa è accaduto? Cosa accadrà? Il caso è un colpo al cuore?
È una storia d’amore What Do We See When We Look at the Sky? con le sue difficoltà e sorti avverse, quasi come una fiaba in cui qualcuno, un occhio maligno, getta sulla coppia una maledizione prima ancora che diventi tale. Però: (ci) si può impedire di innamorarsi per quanti ostacoli e menzogne e fughe piccole o grandi si mettano in atto? La risposta è implicita – un po’ come il ritornello di una canzonetta o una poesia, quella che scrive il regista nelle sue note al film: «Io e te. Quando apro gli occhi vedo te, quando chiudo gli occhi vedo te. Possono dire che sono cieco ma non è vero. Vedo te vedo te vedo te…». Così i due Romeo e Giulietta finiranno loro malgrado per riconoscersi – complice il cinema – pure se intanto sono cambiati, o meglio sono sempre loro e consapevoli di sé stessi, ma esteriormente sono altri: un viso diverso, diverse capacità, niente più pallone per Giorgi né formule chimiche per Lisa altrimenti come potrebbero ritrovarsi?

IL REGISTA di What Do We See When We Look at the Sky? si chiama Alexandre Koberidze, è georgiano, e con questo film ha conquistato l’ultima Berlinale – dove era in concorso – finendo subito nelle passioni di cinefili e festivalieri (online). Non è la prima volta perché gli sguardi li aveva sorpresi col suo film precedente, Let the Summer Never Come Again (2017), presentato alla Settimana della critica di Berlino e poi premiato al Fid Marseille.
Anche quello è una storia d’amore girata Tbilisi, dove Koberidze vive e è nato nel 1984, in un tempo indefinito tra passato prossimo e futuro anteriore e con la videocamera di un telefono cellulare di vecchia generazione. C’è un giovane che incontra un poliziotto, tra i due nasce qualcosa, nel mezzo ci sono la città e il suo movimento, l’estate e un panetto di burro che si scioglie, la guerra che non dovrebbe mai tornare ma che tornerà.
Che cosa vediamo quando guardiano il cielo?la domanda del titolo della sua nuova opera – comprata da Mubi ma che speriamo in Italia circuiti in sala quando e se riapriranno – è una dichiarazione di poetica: dalle premesse fantastiche si entra dolcemente in una narrazione molto «reale» che è il tempo di ogni giorno dei due protagonisti di cui vediamo la disperazione mutare dallo spavento assoluto a una quasi serenità per la nuova e imprevedibile condizione.

 

Romanzo di formazione il racconto della loro esperienza si apre su quanto accade intorno componendo un mosaico urbano: anche qui è estate ma la città è l’antichissima Kutaisi, ci sono i mondiali di calcio e tutti cercano di guardare le partite al meglio nei vari caffè con tv compresi i numerosi cani che vivono in strada. I ragazzini giocano a pallone – sequenza memorabile – impazziti per Messi, e Koberidze che ama il calcio e il cinema i «contropiede» del giocatore li trasforma in passaggi visuali di ritmo, respiro, incastri, slanci.
Intanto Giorgi – che è Giorgi Bokorishvili amico d’infanzia di Koberidze e Giorgi Ambroldze campione di wresling nella versione iniziale – e Lisa – Ani Karseladze e nell’«originale» Oliko Barbaqadze – col loro nuovo aspetto lavorano entrambi in un bar un po’ defilato, la voce narrante davanti al fiume che attraversa la città parla della devastazione della natura, e una regista sta finendo il suo film girato in pellicola (il film di Koberidze è metà in pellicola e metà in digitale) dedicato all’amore. Un’altra coincidenza? I giorni scivolano con la loro musicalità, la grana è quella della leggerezza, di un’ironia in cui si colgono le tracce del cinema di Iosseliani. Con Alexandre Koberidze ci parliamo via zoom nei giorni della Berlinale, dalla finestra alle sue spalle si vede un po’ di strada, un albero e sprazzi di neve a Tbilisi.

Per Lisa e Giorgi la vita di ogni giorno si mescola di colpo a una dimensione magica: la maledizione che impedisce ai due ragazzi di stare insieme e la «condanna» a svegliarsi da un giorno all’altro con un aspetto diverso. A cosa risponde questa scelta?
Credo che in ogni esistenza ci siano degli elementi fantastici, nella «normalità» quotidiana possono apparire dettagli strani che magari ci sfuggono, che sono quelle piccole cose importanti a cui talvolta non facciamo caso. A questo mi piaceva aggiungere una magia in senso più tradizionale, cioè qualcosa che può accaderti a cui non sei preparato, che riguarda le leggende, le convinzioni popolari. Tanti credono agli incantesimi in tutte le loro sfumature, e anche se a me non è mai capitato di assistervi mi piaceva mettere in relazione il cinema con questo. I comportamenti e le reazioni dei personaggi non sono realistici, rimandano a una sfera intima, privata, un po’ come se provassero a rendere visibile le emozioni che stanno vivendo. Non mi interessava utilizzare i canoni tradizionali con cui si mette in scena una storia d’amore.

È per questo che la narrazione di fatti straordinari appare sempre intimamente legata al tempo «ordinario»?C’è una sensazione fisica delle immagini, è come se fossimo lì nella loro temporalità.
Lavoro utilizzando molti materiali, idee e immagini che ho messo da parte nei giorni, appunti che ho sul computer di cui provo a ricreare il senso. Così come cerco a riprodurre suggestioni e eventi che mi tornano in mente. Per esempio la scena dei ragazzini che giocano a pallone rimanda a un’immagine della coppa del mondo con Maradona negli anni Novanta. Se un ricordo mi emoziona la scommessa è restituirlo con lo stesso impatto emotivo. Quella di Lisa e Giorgi inizia come una storia d’amore, ma appena pensavo a questa immagine mi venivano in mente gli archetipi, i miti e io volevo uscirne, volevo fare qualcosa di diverso anche se alla fine quello che rimane è pur sempre una storia d’amore.


Tra un passaggio e l’altro sui due ragazzi e sulla città la voce narrante ci parla della natura, della sua devastazione.
Il cinema e l’ambiente non sono così distanti, da una parte abbiamo distrutto i posti dove viviamo, il nostro pianeta, dall’altra siamo in un’epoca nella quale il cinema si trova obbligato a assumere nuove forme, e quel tipo di cinema che fa la regista nel mio film, in pellicola, indipendente, sta andando perduto. La situazione attuale è così violenta da diventare assurda, al punto che vivere in questa società fa di chiunque quasi un criminale. Pure se non lo vuoi o non ti comporti così sei parte delle cose negative che succedono. Non ho risposte su questo ma sapevo prima di iniziare il film che volevo dire cosa penso del nostro mondo come è adesso e volevo farlo in modo diretto non con metafore o allegorie. Sapevo anche che non volevo una storia senza speranza, sarebbe stata noiosa, oggi tutti si lamentano della situazione, e poi credo che le nuove generazioni stiano facendo bene, molto meglio di noi. Così ho dato ai miei due personaggi una possibilità nonostante la maledizione iniziale. Ho pensato che era più interessante vedere come qualcuno reagisce a qualcosa per cui la nostra epoca non ha una soluzione. Loro aspettano e continuano a sperare che avvenga qualcosa. Qui torniamo al cinema che, ne sono convinto, è l’incantesimo del presente; è davvero magico ciò che si può fare col cinema. E infatti sarà proprio la pellicola il mezzo che verrà in loro aiuto.