Visioni

Alexander McQueen, funambolo fashion

Alexander McQueen, funambolo fashionun ritratto dell'artista nel 1997, sotto una serie di creazioni in mostra a Londra

Eventi Il Victoria and Albert Museum di Londra ospita la mostra «Savage beauty» dedicata al geniale stilista scomparso.Creazioni frutto di ossessioni personali intrecciate con i demoni collettivi, selezionate attraverso la lente della sua infinita malinconia

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 23 luglio 2015

Ci sono appuntamenti con la moda che si possono mancare. Quello con Alexander McQueen. Savage Beauty, la mostra che il Victoria and Albert Museum di Londra ha in cartellone fino al 2 agosto, non lo può perdere neanche, e forse soprattutto, chi non si interessa di moda o addirittura la avversa, perché la sua percezione della moda sarà divisa in un prima e un dopo Savage Beauty.

La mostra non è soltanto una retrospettiva di sedici anni di moda di uno stilista morto giovane, ma è l’autobiografia di un funambolo che ha attraversato la sua breve vita sul filo sottile della visionarietà, aggrappato alla propria depressione trasformata in una forza di gravità che gli consentiva di tenere i piedi per terra in un mondo che non gli apparteneva. Mentre gli appartiene questa esposizione, concepita più come una performance che come una celebrazione di abiti senza vita, indossati da manichini mascherati da persone.

PARIS fashion week march 2006 READY TO WEAR FALL WINTER 2006/07 ALEXANDER Mc QUEEN
PARIS fashion week march 2006
READY TO WEAR FALL WINTER 2006/07
ALEXANDER Mc QUEEN

Il 6 ottobre del 2009 al Palais Omnisport di Parigi è andata in scena la sfilata di Alexander McQueen per la collezione Plato’s Atlantis (ogni collezione dello stilista inglese ha un titolo). La regia della sfilata è firmata dallo stesso McQueen con il fotografo-regista Nick Knight e Ruth Hogben, la colonna sonora è del musicista John Gosling. L’evento è trasmesso, per la prima volta in assoluto, in diretta via web. Dopo quel giorno, nella moda nulla è stato come prima. Quattro mesi più tardi, l’11 febbraio 2010, il giorno prima dei funerali della madre, Alexander McQueen si suicida nella sua casa di Londra. Aveva 40 anni. Oggi, a cinque anni dalla morte, quella che era sembrata un’orribile premonizione si conferma, purtroppo, realtà: con McQueen è scomparso un grande ricercatore del sublime che avrebbe spinto la moda alla necessità di compromettersi e di prendere posizione nella confusione di questo XXI secolo. Senza di lui, invece, è rimasta giocoforza imbrigliata nel racconto di un presente che si nutre di nostalgie e di rimpianti di un passato che, quando va bene, si ri-propone cocome innovatore.

Dodici mesi dopo la tragedia, nel tentativo di fare elaborare il lutto ai numerosi orfani e sconvolgendo i piani già fatti, il 4 maggio 2011 il Costume Institute del Metropolitan Museum di New York inaugura l’esposizione Alexander McQueen: Savage Beauty, l’unica mostra di moda che il museo newyorkese possa scrivere tra i suoi blockbuster. Ma non è bastato. Infatti, il 14 marzo di quest’anno il Victoria and Albert Museum di Londra ha replicato la stessa mostra, con molte aggiunte e precisazioni (ma le file di visitatori lasciano prevedere una proroga della chiusura: i dati i inizio luglio danno circa 400mila visitatori, un record).

La storia di Alexander McQueen è, sommariamente, nota a molti. Figlio della working class inglese, padre tassista e madre casalinga, nasce il 17 marzo 1969 a Lewisham nella periferia di Londra; a 15 smette di studiare, diventa garzone di una sartoria maschile di Savile Row (la strada di Londra tempio degli abiti fatti a mano) e riesce a diventare assistente del sarto che cuce gli abiti del principe Charles; poi si sposta per qualche mese nello studio del designer giapponese a Londra Koji Tatsuno, per qualche mese viene a Milano a lavorare da Romeo Gigli e, quando ha deciso che i risparmi messi da parte gli bastano, si iscrivere al Central Saint Martins. Nel 1992 si diploma in Fashion Design e presenta la sua collezione-tesi: Jack the Ripper Stalks his Victims.

Savage Beauty Armadillo Shoe

Conosce Isabella Blow, aristocratica inglese e giornalista di moda, che sarà la sua amica, la sua musa, la sua mentore, la sua agente, il suo io e il suo doppio (morirà suicida tre anni prima di lui). L’anno dopo è già uno dei nomi della settimana della moda londinese e con la collezione Nihilism mostra il suo potere immaginativo. Un incredibile artista che ha imparato il mestiere del taglio e del cucito, attraverso il quale vuole raccontare la sua visione: un miscuglio di ossessioni personali intrecciate con i demoni collettivi, selezionati attraverso la lente della malinconia che lo accompagna dalla nascita e che, prima della fine della sua vita, si mostrerà con quei caratteri della depressione creativa che spesso aggredisce le menti benedette dal mistero del genio. Cioè, come dice Harold Bloom, «una mente illuminata dall’aspirazione allo straordinario e al trascendente», che McQueen ha saputo raccontare attraverso i suoi vestiti.

I successi professionali si susseguono. Nel 1996, a 27 anni, Lvmh lo vuole come direttore creativo di Givenchy, dove sostituisce John Galliano che va da Christian Dior. Dopo Yves Saint Laurent, che arrivò a capo di Dior a 20 anni, è il più giovane designer mai assunto da una Maison de Couture. Nel 2000 lascia Givenchy, e il Gruppo Lvmh, per curare solo la sua linea, diventata nel frattempo di proprietà di PPR, ora Kering, il secondo gruppo del lusso mondiale. Dieci anni dopo si è fatto trovare appeso nel bagno di casa sua, come le 25 Streghe di Salem impiccate nel 1692 negli Usa dalle quali diceva, scherzando ma non troppo, di discendere e alle quali aveva dedicato una collezione.

Per meglio comprendere la sua concezione di moda, e la mostra Savage Beauty, però, bisogna partire dalla fine, dalla collezione Plato’s Atlantis, il suo testamento. Per costruirla, McQueen immagina figure umanoidi assolutamente androgine, abitanti di quell’Atlantide di Platone inabissatasi «in un singolo giorno e notte di disgrazia», come scrive il filosofo. L’espediente narrativo serviva a McQueen per parlare del global warning ma anche per avere finalmente l’occasione di non occuparsi di forma e di volumi e di colori ma solo di figura. Con tessuti a mosaico metallico che ricordava la descrizione platonica del Tempio di Atlante, riesce a costruire strutture in forma d’abito e, soprattutto, la scarpa Armadillo, una piattaforma alta 25 centimetri a forma dell’animale da cui prende il nome che non ha più nulla della forma della scarpa ma è una scultura che serve a infilare il piede e a camminare.

Kate Moss Hologram

 

«Non voglio pensare a nessuna forma, a nessuna referenza. Né foto né quadri che possano servire da ispirazione. Voglio creare il nuovo», diceva McQueen ai suoi assistenti mentre preparava la collezione. E il nuovo è arrivato. Quel misto di natura, tecnologia e artigianato è la rappresentazione di un punto di vista unico e radicale di McQueen dove si possono trovare raccolti tutti i suoi fantasmi.

L’acqua che sommerge Atlantide e che si visualizza perfino sugli abiti è «il simbolo dell’inconscio, il posto buio dell’abisso, ma anche la sorgente di una nuova vita», si legge in una nota di Plato’s Atlantis. «A volte mi sembra di stare annegando, ma poi ritrovo sempre la pace e la tranquillità quando mi trovo sotto l’oceano io da solo, in compagnia di me stesso e me medesimo», dichiara dopo la sfilata.
Il percorso della mostra di Londra termina proprio davanti al film della sfilata. Nelle sale che precedono, le collezioni sono mischiate per temi e non sistemati per cronologia. Si resta estasiati davanti alla visione gotico-vittoriana, alla sua interpretazione selvaggia della natura, alla sua scomposizione delle divise che in un abito sa raccontare Napoleone Bonaparte e l’Ammiraglio Nelson, le trasformazioni di culture estranee e integrate come il Giappone raccontato da un inglese edwardiano, il suo andare avanti e indietro nel tempo unendo Marie Antoinette, Tim Burton e Eward Shissorhands in una collezione gotica che fa sfilare nei sotterranei del carcere della Conciergerie a Parigi, con le modelle che incedono portando un lupo al guinzaglio.

Sempre in una rappresentazione estatica dell’invenzione di una wunder kammer, la stessa in cui culmina la mostra Savage Beauty e la visione di McQueen, prima di svanire nella proiezione di un ologramma in cui il corpo di Kate Moss è la rappresentazione reale dell’irrealtà a cui la moda, quella che ha in mente McQueen, deve aspirare per diventare illusione materica di un’etica-estetica che nasce per essere condivisa, terreno di incontro del creatore e del consumatore.

Savage-Beauty Plato's Atlantis 1

Perché, questo genio depresso ha infranto anche la regola stabilita da un altro genio depresso, Yves Saint Laurent. Ricordando il lavoro di quest’ultimo, il suo compagno e socio Pierre Bergé diceva che «La moda è fatta di genio, di talento e di intelligenza. Ma nessuna di queste qualità deve far dimenticare che è destinata a vestire le donne». La preoccupazione di McQueen era innanzitutto quella di capire come erano cambiate le donne, e su questo cambiamento applicava il suo genio.

Quanto la morte prematura di Alexander McQueen abbia bloccato non solo il suo ma il processo dell’intera moda del XXI secolo è, purtroppo, sotto gli occhi di tutti. Quanto Savage Beauty sia un incoraggiamento a riprendere il suo percorso è una speranza legata a un’altra. Che nasca, quindi, un altro designer sensibile all’estraneità da sé come lo era McQueen.
E che decida di portare questo film alle sue estreme conseguenze, cioè a rendere il racconto più reale della realtà, secondo la missione che Gore Vidal affida al cinema. Senza abbandonare il campo quando si accorgerà della troppa incomprensione del mondo.

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