Al jazz festival di Skopje abbiamo avuto l’occasione di ascoltare Alexander Hawkins in solo a poco tempo dall’incisione di Iron Into Wind, il suo piano solo appena pubblicato dalla Intakt: e dal vivo, davanti ad un’ampia platea, era ancora più impressionante constatare l’assoluta concentrazione, la serietà senza concessioni con cui il pianista inglese dà vita ad un mondo poetico risolutamente individuale. Impressiona anche notare come Hawkins, nato nel 1981 a Oxford, riesca a non perdere il filo di un assorto scavo personale mentre è uno dei giovani musicisti europei più versatili e richiesti, impegnato in una quantità di progetti propri e di collaborazioni.

Miriadi di pianisti suonano alla Bill Evans o McCoy Tyner o vorrebbero essere Jarrett. Mi ha sempre colpito il senso – direi «vissuto» – della storia del jazz che si trova nel suo pianismo, ma in maniera non passatistica e non imitativa.

Per la prima volta nella vicenda di questa musica la maggior parte di chi la pratica è uscita dai conservatori, dalle scuole. Credo che l’istituzionalizzazione dell’apprendimento del jazz sia una influenza pericolosa, conservatrice. Amo Bill Evans e McCoy, specialmente Bill Evans: è meraviglioso, e c’è così tanta gente che lo copia… ma è lui che mi interessa ascoltare. È un linguaggio che è stato codificato, e di conseguenza anche ridotto.

I suoi primi ricordi musicali definiti?

Saturday Night Function, ascoltato a casa: è ancora uno dei miei pezzi di Ellington prediletti, e di una delle band di Ellington che preferisco, ancora degli anni venti; avevamo degli album cronologici, e ho ascoltato molto il primo Ellington. Un altro dei primi ricordi è un album di Art Tatum – ancora adesso uno dei miei eroi – con Ben Webester: mi aveva colpito come i suoni fossero buoni e si potessero cogliere i dettagli. Il papà registrava dei programmi della radio, e in macchina ascoltavamo una cassetta con Jelly Roll Morton, e un’ altra con Tatum.

Un «apprendistato» proprio alle origini del jazz…

Sì, ho ascoltato King Oliver, i dischi di Study in Frustration di Fletcher Henderson, sono cresciuto con queste cose… I miei coetanei arrivavano al jazz dal rock, magari attraverso il Miles elettrico, e poi andavano a ritroso: io invece sono andato in ordine cronologico….

Anche il suo interesse per i pianisti è andato più o meno in ordine cronologico…

A Oxford non c’era molto dal vivo, e prima dei quindici-sedici anni la mia esperienza della musica è soprattutto stata l’ascolto di tanti dischi. Earl Hines, Tatum, Teddy Wilson. Questo poi mi ha permesso di vedere le connessioni in maniera più chiara: se per esempio Cecil Taylor parla di Ellington o di Dave Brubeck, non è necessariamente una connessione ovvia, mentre per me è evidente. Poi in un viaggio in Francia in macchina con mio padre avevamo una cassetta di Charlie Parker, che ascoltavo per la prima volta, così come i pianisti che lo accompagnavano: Bud Powell, Al Haig, Dodo Marmarosa.

Nel suo olimpo di pianisti ce ne sono anche di non così celebrati come Monk o Powell.

Haig, Marmarosa, Joe Albany, Hampton Hawes, Herbie Nichols, Hasaan Ibn Ali, Dick Twardzick… La musica di Elmo Hope è uno dei miei grandi amori. Sono stati delle individualità molto radicali, con una grande reputazione, ma non venerati come Monk o Powell, e questo per me è un’ispirazione. Mi piace così tanto ascoltare: posso trovare qualcosa di interessante in tante cose. Poi è stato fondamentale Cecil Taylor, che ha anche influenzato altri pianisti molto importanti per me, come Andrew Hill, Muhal Richard Abrams, Don Pullen, Chris McGregor, Marilyn Crispell.

In realtà lei ha cominciato più con l’organo che con il piano…

A sei-sette anni ho iniziato studiando il piano classico, ma presto sono passato all’organo, a quell’età mi divertiva di più. Suonare per esempio Bach è stato un grosso esercizio tecnico, che mi ha dato una base veramente solida. Il repertorio classico per organo mi piaceva molto, ma intanto ascoltavo jazz e a diciotto anni mi sono concentrato sul piano.

In Decoy, un trio con John Edwards e Steve Noble, suona l’hammond e ogni tanto mi sembra di sentire aleggiare Messiaen: sbaglio?

Quando ero più giovane i miei riferimenti per l’hammond erano Jimmy Smith, Baby Face Willette, Larry Young, Sun Ra, perché volevo essere un jazzista, ma adesso sono molto più rilassato sull’influenza classica: quindi fantastico se viene fuori Messiaen! Anche perché a quanto pare il jazz non gli piaceva affatto! (ride, ndr)

Lei è da anni il pianista della band europea di Mulatu Astatke, il padre dell’ethio-jazz: come è avvenuto il contatto?

Mulatu faceva un tour con gli Heliocentrics, e John Edwards e io ci trovammo a rimpiazzare il loro bassista e il loro tastierista. Mulatu stava mettendo insieme una sua formazione: evidentemente gli siamo andati a genio, e ci prese. La musica etiopica mi piaceva già, avevo ascoltato la collana éthiopiques. Per me che faccio musica improvvisata è buffo suonare davanti a migliaia di persone…

Suona regolarmente con Evan Parker e nel gruppo di Louis Moholo, due figure storiche dell’improvvisazione europea.

In Gran Bretagna la loro musica è parte di una tradizione, e per me è molto importante esserne parte anch’io. E lavorare con Evan e Louis è come avere la garanzia che quello che faccio è ok. Li ho ascoltati per anni e anni, e sognavo di poter magari un giorno suonare con loro.