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Alessandro Fo, La gioia perfetta dell’incompiutezza

Alessandro Fo, La gioia perfetta dell’incompiutezzaDa "La doppia vita di Veronica" di Kieslowski, 1991

Poesia Libro «alessandrino» ricco di citazioni, che dice il senso di perdita e il divino sorprendendoli in piccole epifanie quotidiane: tra Sant’Agostino e Baudelaire

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 22 giugno 2014

C’è una poesia che forse più di tutte ospita quel senso di perdita che il moderno porta con sé, come suo emblema o cifra: è quel Cygne nel quale Baudelaire – ripartendo da un’immagine antica, dall’Andromaca piangente sulle sponde del Simoenta – si è ritratto come passante intriso della melancolie di luoghi ormai mutati o scomparsi, di quei faubourgs nei quali – mentre Parigi cambia – l’osservatore percepisce lo scorrere del tempo in un palazzo, in un’impalcatura. «Tout pour moi devient allegorie», scriveva Baudelaire. «Tutto si fa intanto allegoria»: quest’ultimo verso non si legge però in una delle molte versioni disponibili delle Fleurs du mal, ma fa da inserto prezioso – e mascherato, o semmai da ‘traduttore segreto’ – in una lirica di Alessandro Fo, «Ma giocare è molto difficilissimo», verso di taglio ironico e stavolta esplicitamente rubato a un altro poeta, Tiziano Rossi, a ulteriore conferma di una pratica di letteratura istintivamente au deuxième degré. Il testo compariva già in una sezione di Corpuscolo (Einaudi, 2004) che ora è parzialmente riproposta, e trova il suo luogo d’elezione, nell’ultimo lavoro di Fo, Mancanze (Einaudi «Collezione di poesia», pp. 128, euro 11,00).

Un titolo che è già, per sé, in quell’aura di perdita malinconica cui allude la pur esile traccia baudelariana (e basterebbe proseguire nella lettura della stessa poesia – il racconto di uno scippo – per avvertirne meglio la grana di ‘rifacimento postumo’: «il furto si abbina a cose che se ne vanno, / valori, e feticci futili / traslocati già nell’aldilà… La tua pena turbata / tracima in una mia»). E del resto eccolo altrove, l’io che si presenta sulla scena, muoversi proprio «per dissolvere un po’ di delusione / circoscrivendo la malinconia» e misurando una «sera / priva d’angeli o affetti», nella quale di nuovo la parola-chiave è una generale, cosmica «insufficienza». È lo stesso poeta e latinista – non dimentichiamoci fra l’altro della recente prova di Fo come traduttore dell’intera Eneide – a richiamare l’attenzione del lettore sul senso del titolo, e a svelare come il titolo originario del lavoro suonasse reliqua desiderantur (‘il resto manca’): espressione-chiosa, da editore o copista di testi antichi, se è vero che proprio la chiosa o la glossa benissimo si adatterebbero a descrivere, in estrema sintesi, la coltissima scrittura in versi di Fo. E il lettore, ancora, è tentato di sfruttare al massimo il breve autocommento che chiude il volume, in cerca di una sorta di fulminea autodefinizione o poetica-lampo. E forse può trovarla, almeno provvisoriamente, nella «lontananza» che Fo elegge a suo luogo prediletto. E poi soprattutto in quel suo far poesia «lavorando sui bordi»: glossando, appunto, gli altri, o fiorendoci attorno, come per i versi del coro dell’Edipo a Colono «tradotti da un amico» e citati al chiudersi di una delle riuscite più intense di Fo, «della nostra morte». O costruendo un’intera sequenza di testi-chiosa intorno a una preghiera come l’Ave Maria, sezionandola in brevi pericopi-titolo (piena di grazia-tu sei benedetta-fra le donne, ecc.). Ma anche il senso del divino – che gioca dunque parte non insignificante in questa raccolta – non è tanto ‘affrontato’ o guardato direttamente, ma piuttosto per speculum, come spiato da quegli stessi «bordi». Non affidandosi cioè – spiega ancora l’autore di questi versi – alla «devozione» o alla «riflessione teologica», ma «sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà», nel tentativo di cogliere «momenti alti, significativi e (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone».

Anche qui, dunque, le «cose parlano», diremo pensando al già citato poeta di Corpuscolo. E insieme sono le situazioni a parlare, o le voci degli altri, sempre cercando di «dire quel che non c’è», o forse non si vede. Persino l’organizzazione strutturale del libro – con riproposte di testi già pubblicati, o singoli frammenti tolti dall’insieme, come nella suite mariana ricordata – dice l’impossibilità dell’Intero, insomma l’Incompletezza del reale, l’Attesa-Desiderio di un resto. Sono molte le figure che, dentro questi versi, riportano a tale centralissimo nodo. A partire dal colloquio coi defunti, che trova uno dei momenti più alti in «Padre già quasi angelo», dove la figura paterna è rievocata anche grazie a Sant’Agostino – un altro degli amori antichi di Fo – e al suo «bicchiere d’acqua», in tratti di dolente e insieme sorridente affetto che qualcosa devono alla seconda maniera montaliana (vedi certi xenia per la moglie, o certa capacità di annacquare auctores e citazioni in lacerti di quotidianità frugale, con escursioni fra l’iper-culto e il botta e risposta del parlato). Ma anche altrove la protagonista è, magari metaforicamente, l’Assenza: vedi la seconda sezione del libro, «Il tono blu», dedicato interamente a Chopin, dove André Gide – autore di alcune Note su Chopin – è convocato in un suo colloquio con l’Abate di Montecassino, sorpreso nell’atto di leggere una partitura semplicemente «eseguendola in mente / …immaginando il suono», nella «gioia perfetta» dell’assenza stessa della musica: in un «silenzio» che potremmo dire grato, felice della propria stessa incompiutezza.

L’ultimo scorcio di Mancanze – «Figure d’angeli» – tematizza in modo se possibile ancora più chiaro questo aspetto di ricerca dell’Oltre, e insieme fa risuonare efficacemente tutte le corde di questa lira alessandrina. Come invitata dalla citazione – da Dante a Petrarca al maître Ripellino, in un sistema di «trame, di filamenti che in modi anche eccentrici collegano punti», potremmo dire usando ancora un poco il Fo commentatore di se stesso – una realtà còlta come per caso o di passaggio, quasi distrattamente, lascia poi emergere – nel dettaglio apparentemente insignificante di una «coppetta di plastica rosa», o in un «hotel», o in un «sabato notte d’estate sul corso» – l’«angelo-donna», o altri eventi-talismani da opporre ai «pallidi nulla» del mondo: scie angeliche pronte anche a prendere la forma sparente di un «palloncino», o di un «incongruo pettirosso» che «ancora, tuttavia, / non si lascia afferrare». Pur bisognosa di infiniti semi antichi – da Agostino a Virgilio –, pur dentro una modernità che l’ha ormai ridotta a gesto estemporaneo – occasione relegata, appunto, al margine – questa poesia non si è insomma dimenticata della sua intima vocazione: dietro il suo aspetto primo, che è anche quello del gioco, continua seriamente a scommettere, con Hölderlin, di non aver bisogno di alcuna arma o astuzia, «finché la mancanza di Dio aiuta».

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