«Non troverai nuove terre, non troverai altri mari. / Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / girerai. Negli stessi quartieri invecchierai; / e in queste stesse case imbiancherai. Finirai sempre in questa città. Verso altri luoghi – non sperare – / non c’è nave per te, non c’è altra via. / Come hai distrutto la tua vita qui / in questo cantuccio, nel mondo intero l’hai perduta», scriveva Konstantinos Kavafis in La città (traduzione di Nicola Crocetti, Einaudi 2015).

COM’È NOTO, il poeta greco si riferisce in questi versi ad Alessandria d’Egitto, dove nacque nel 1863 e morì nel 1933. Nel 1930 nasceva nel medesimo lembo di Mediterraneo Ahmed Morsi, pittore, critico d’arte e poeta che ha trascorso vent’anni a tradurre l’opera di Kavafis in arabo, producendo in sua memoria anche il libro illustrato The Cavafy Suite (1990). Ed è proprio una tela di Morsi ad aprire al Mucem di Marsiglia l’esposizione Alexandrie. Futurs antérieurs (Alessandria. Futuri anteriori), fino all’8 maggio. Ideata con il Museo reale di Mariemont (Belgio) e accolta in precedenza al Palazzo delle Belle Arti (Bozart) di Bruxelles, la mostra è curata da Arnaud Quertinmont e Nicolas Amoroso per la parte antica e da Edwin Nasr e Sarah Rifky per quella contemporanea. La rassegna si svolge nel contesto del progetto Alessandria: (Ri)attivazione degli immaginari urbani comuni, finanziato dal programma «Europa creativa» dell’Unione Europea, che annovera tra i vari partner anche Cittadellarte-Fondazione Pistoletto. Il quadro in grande formato (360 x 135 cm) di Morsi, in prestito dalla Gypsum Gallery del Cairo, coglie di sorpresa.
L’allestimento realizzato da Asli Çiçek con Maxime Descheemaecker lascia intravedere fin dall’ingresso un’ampia galleria nella quale si alternano oggetti archeologici e opere d’arte contemporanea, e verso la quale si ha la tentazione di proiettarsi all’istante, non foss’altro per il richiamo del celebre faro – una delle sette meraviglie del mondo antico –, qui rappresentato in un originale plastico di sughero di Dieter Cöllen (2015), che attende in fondo alla prima sala come a voler coronare l’approdo di un viaggio mitico. Sebbene Morsi sia pressoché sconosciuto nel panorama europeo, il suo Untitled (Seaside Diptych) riesce a trattenere il visitatore con un paesaggio surreale, che disorienta e al contempo rapisce. Nel dipinto si mescolano elementi che appartengono ad Alessandria ma anche a New York, città in cui Morsi risiede dal 1974.

PERSONAGGI androgini dalla testa piatta e dallo sguardo sospeso si muovono nella cornice di un orizzonte costiero, dove fuma il camino della metropolitana della Grande Mela e un arco si schiude, tra onde spumose, in un candido muro: è questa la soglia che conduce al tempo perduto, la cura al dolore dell’esilio? scrive Sarah Dwider nel bel catalogo (Bozar, Mucem, Actes Sud, Fonds Mercator, pp. 240, euro 35) che «l’immaginario di questo dittico, caratterizzato dal sogno, trova eco nella sua raccolta (di Morsi, ndr) Elegie al Mediterraneo, diario poetico nel quale si riflettono i viaggi effettuati da Morsi nella sua città natale, e il sentimento esacerbato della perdita e dello sradicamento che suscitano queste visite nell’Alessandria di oggi. Pesci naufragati sulla riva, barche abbandonate, mari prosciugati, tutto appare nella sua scrittura come l’espressione poetica della lontananza e della perdita». Tramite questo doppio sguardo, incentrato sulla città fondata da Alessandro Magno nel IV secolo a.C. – i cui resti sono oggi perlopiù invisibili – e la città moderna, i curatori vorrebbero accompagnare il pubblico alla scoperta di un luogo che fatica a prendere le distanze da un passato glorioso e deve anzi fare costantemente i conti con esso. L’obiettivo è ambizioso e intrigante ma la mostra non convince pienamente. Deambulando tra le cinque sezioni si ha infatti l’impressione che tra i reperti e le installazioni dei numerosi artisti coinvolti non ci sia un vero e proprio dialogo, mentre manca un focus sulle più recenti ricerche archeologiche terrestri e subacquee.

Hrair Sarkissian, Background, 2013 courtesy the artist

LA CITTÀ ANTICA viene illustrata attraverso gli acquerelli di Jean-Claude Golvin, che ne ricostruiscono il profilo e l’espansione urbana tra il mare e il delta del Nilo (il lago Mareotis rievocato anche in una poesia di Ungaretti), e oggetti che ne mettono in evidenza il volto cosmopolita all’epoca della dinastia greca dei Lagidi, quando Tolomeo I e poi Cleopatra VII fecero di Alessandria la capitale del loro regno, rendendo l’Egitto una potenza mercantile ma anche culturale. Particolare risalto viene dato al sincretismo religioso, in cui emergono fra tutte due divinità: Serapide e Iside. Di quest’ultima sono esposte statuine e vasi, che la raffigurano nelle varianti Isis lactans (che allatta, ndr) e Iside Afrodite. Il multiculturalismo di Alessandria, che perdura in età romana, trova espressione tra arte (notevole il busto colossale di un personaggio della stirpe tolemaica raffigurato con i tratti e gli attributi dei faraoni, 305-222 a.C.) e utilizzo di differenti lingue, come nella stele, in latino e in greco, che riferisce dei lavori nel canale scavato da Augusto per collegare Alessandria al Nilo (10-11 d.C.).
Tra le opere contemporanee che suscitano un certo interesse spicca Gordian Knot di Aslı Çavusoglu (1982, Istanbul). Si tratta di una riproduzione in ceramica di un busto di Alessandro Magno del III secolo a.C., scoperto a Pergamo e conservato al Museo archeologico di Istanbul. In questa creazione del 2013, una linea divide il volto del sovrano in due parti uguali, poi assemblate in maniera asimmetrica. Tale processo di ricomposizione vuole proporre una riflessione critica sull’antagonismo tra la Grecia e la Macedonia del Nord, paesi che rivendicano entrambi la figura del grande condottiero quale eroe nazionale.

COINVOLGENTI sono anche le fotografie della serie Background di Hrair Sarkissian (1973, Damasco) che immortalano i tradizionali atelier per ritratto di diverse città orientali, abbandonati e sospesi in un’atmosfera onirica. In questo limbo, tra nostalgia e appartenenza a una comunità, trasporta anche l’immagine – due colonnine bianche che si stagliano su un fondale celeste – scattata ad Alessandria. Nondimeno, un altro elemento chiave del lavoro di Sarkissian è la fuga dallo stereotipo orientalista. Il tema ricorre sotto traccia anche nel progetto generale della rassegna, che mira a smontare la costruzione di un’identità gravitante attorno a tre scomparsi monumenti alessandrini: il Faro, la Biblioteca e il Museion.
Al di là delle imprescindibili incursioni nell’Alessandria del sapere universale consegnato al mondo di allora (e in parte anche al nostro), l’esposizione ha infatti il pregio di riportare l’attenzione su una città fortemente simbolica che, almeno dalla seconda metà del Novecento, l’Occidente ha più sognato che compreso.