Ci sono libri considerati brutti anatroccoli dalla propria madre (o dall’autore padre) che invece sono accolti con favore da un ampio pubblico di lettori. È questo il caso del terzo libro del giovane William Somerset Maugham Il mago pubblicato nel 1908, a trentaquattro anni, forse scritto l’anno precedente (Adelphi «Biblioteca», ottima traduzione di Paola Faini, pp. 254, € 18,00). A cominciare dal 1928 è alla sua settima uscita in Italia, e non gode di alcuna introduzione se non quella del suo dispettoso padre, in A Fragment of Autobiography, ristampata nell’edizione vintage del 2000: «Mentre rileggevo Il mago ero meravigliato di come avessi potuto raccogliere tutto quel materiale sulla magia. Devo aver passato giorni e giorni nella sala di lettura del British Museum. Lo stile è sovraccarico ed enfatico (lush and turgid), non quello stile che adesso approvo, ma forse non incongruo con l’argomento, e vi è un gran numero di avverbi e di aggettivi che oggi non userei più. Penso che fossi influenzato dalla écriture artiste che gli scrittori francesi del tempo non avevano interamente abbandonato, e stupidamente cercavo di imitarli».
Nel 1907 si trovava a Parigi e l’incontro con il già famoso Aleister Crowley, satanista, occultista, scacchista, scalatore del K2, avrebbe ispirato il suo Oliver Haddo, protagonista del Mago. Era allora di gran moda il romanzo di Huysman, Là-Bas, e Maugham vi aggiunse di suo i più grandi nomi dell’estetismo inglese, Pater e Wilde. Del resto Crowley era anche prolifico poeta, somigliante un po’ alla lontana a Swinburne e Browning; bellissimo da giovane, ma grasso e un po’ calvo quando avvenne l’incontro in casa di un amico pittore. «Un impostore, ma non del tutto un impostore». Gran parlatore Crowley, con quello sguardo speciale che poi sarà attribuito a Haddo. «Gli occhi erano la cosa più singolare in lui. Non erano grandi ma di un azzurro chiarissimo, e fissavano l’interlocutore in modo molto imbarazzante … Davano l’impressione di attraversare il corpo con lo sguardo, riuscendo a vedere la parete al di là. Era qualcosa di innaturale. Un’ altra stranezza era l’impossibilità di capire se fosse serio. C’era un’aria ironica in quello sguardo bizzarro, un sorriso sardonico sulle labbra, e non si sapeva come interpretare il suo sfrontato modo di esprimersi» – così nel Mago; quasi identico il ritratto di Crowley nella Autobiography.
Per chi crede nei sincretismi, sincretismi fortunati si presentano. In cima a una pila di libri abbandonati ho trovato Aleister Crowley. La natura della bestia di Colin Wilson (Ghibli, 2015), una biografia che non indulge certo nella cronaca scandalistica legata a quel nome. Al capitolo V lascia il passo a un precedente biografo, John Symonds: «Il 1907 fu l’anno in cui egli ‘sbagliò’ … aveva trentadue anni. Il suo passato sfrenato e nomade poteva essere messo da parte come un periodo di Sturm und Drang della sua esistenza. Aveva ancora una occasione di darsi delle regole e di condurre una vita normale, e invece gettò sua suocera giù dalle scale … avviandosi a gran passi verso la Terra Perduta, in lode degli dei immortali» (The Beast 666. The Life of Aleister Crowley, 1997). Ma in tal caso non sarebbe comparso sulla copertina di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, né ci sarebbe a ricordarlo la lunghissima voce di Wikipedia. La sua fama di profeta di una nuova spiritualità, di una nuova religione, attraverso la pratica indefessa, drammatica, grottesca, di sesso-magia-droga avevano affascinato la sua generazione. Ma non era destinata a durare. Materiale rozzo che Maugham capì e corresse.
Gli attribuì una odiosa corpulenza, ma anche un fine gusto del bello e capacità sofisticate di seduttore. Per vincere la ritrosia, anzi il ribrezzo, della bellissima, innocente Margaret, Maugham non esita a fargli citare il famoso brano di Pater: «Suo è il capo su cui convergono tutte le fini del mondo, e le palpebre che ne sono come appesantite. È una bellezza che dall’interno raggiunge la carne; il sedimento cellula per cellula, di singolare pensieri, sogni fantastici e squisite passioni». Altre belle pagine sono dedicate all’estetismo decadente, di gusto pateriano. «Oliver Haddo riuscì con un solo tocco a conferire ai dipinti un nuovo esoterico significato … Quei quadri erano ricolmi di uno strano senso del peccato, e la mente che li contemplava era gravata dalla decadenza di Roma e dal vizio sfrenato del Rinascimento, torturata dall’introspezione dei tempi moderni». Margaret ormai sente come Erodiade la furiosa voglia di possesso che la incatena a Haddo: «Mi fa ribrezzo. Eppure qualcosa, nel mio sangue, mi attira verso di lui, contro la mia volontà. È la mia carne che lo chiama a gran voce», e sarà moglie e vergine, e vittima consenziente. Malgrado il tragico destino, tuttavia Margaret è un esile «tipo» come gli altri tre comprimari necessari a svolgere il tema di Haddo: Arthur Burdon, l’innamorato onesto che alla fine farà giustizia; l’amica e confidente Susie; il dottor Porhoët, lo scienziato che condannerà l’opera del mago-scienziato: non la ricerca dell’oro ma l’oltraggiosa ambizione di ricreare la vita, la pretesa scientifica della magia. Nel rogo finale bruciano i cadaveri dei deformi omuncoli, le creature da incubo, chiuse nell’orribile laboratorio, insieme all’enorme corpaccione di Haddo stesso. Margaret era già stata sacrificata per il compimento della grande opera.
Crowley, di cui ricordiamo almeno Magick in Theory and Practice, gridò al plagio quando lesse il romanzo di Maugham. Su un numero di «Vanity Fair» del 1908 pubblicò Come scrivere un romanzo! (dopo W.S. Maugham) a firma Oliver Haddo, fornendo un elenco di prevedibili fonti. Poteva essere un cigno nero per Maugham, che ritenne opportuno scrivere quel frammento autobiografico di cui sopra. «Una volta, molto tempo dopo, ricevetti un telegramma che diceva: “Per favore, mandami venticinque sterline immediatamente. Io e Madre di Dio facciamo la fame”. Non gliele mandai, e visse ancora per molti disgraziati anni».