Al centro dell’opera di Sholem Aleichem c’è uno shtetl mitico e comico, Kasrilevke, luogo immaginario in cui si moltiplicano le piccole storie di una inattuale, tenera e spesso tragica vita ebraica. Anche se non figura nelle carte geografiche dell’Ostjudentum, Kasrilevke è una cittadina come tante altre, popolata da poveri diavoli dignitosi e allegri che sanno preservare il rispetto di sé e il senso della loro comunità.

In fondo, rassomiglia molto a Voronkov, il luogo in cui lo scrittore (registrato negli archivi rabbinici come Salomon Rabinovitz) trascorse i primi, «splendidi e pazzi anni» dell’infanzia e da cui si allontana con malinconia: «Non esisteva – scrive in terza persona – un villaggio al mondo che avesse altrettanto fascino.

Era un luogo indimenticabile, un luogo che avrebbe ricordato per sempre».
A lungo incerto tra la professione di letterato e quella di rabbino, Salomon cominciò a scrivere in ebraico e in russo, del tutto insensibile al fascino dello jiddish, requisito ancora dalla religiosità magica ed esoterica dei chassidim e dalla istruzione dei più umili. La conversione verso il nuovo nome e la ‘vecchia’ lingua dei suoi capolavori – da Tewje il lattivendolo a Menachem Mendel – nasce da suggestioni diverse: l’ammirazione per l’opera pioneristica di Mendele Moicher Sforim e la lettura di un testo rivoluzionario, Autoemancipazione di Leon Pinsker pubblicato dopo il pogrom di Odessa del 1881 e destinato a diventare il breviario di un radicale rinnovamento dell’ebraismo orientale.

Echi dal vasto mondo
Erano spettri secondo Pinsker gli ebrei dispersi tra le terre d’Europa, inquietanti tra i popoli e indefiniti a se stessi. Per muoverli verso la conquista di una patria e della libertà era necessario che vedessero in modo più problematico e realistico la loro vita.

Pio, ‘illuminato’ e sionista quanto basta, Salomon si mette al servizio di questo progetto. Sceglie per nome una formula di saluto (in ebraico Sholem Aleichem significa «la pace sia con voi) così falsa da tracciare un progetto esistenziale e letterario: lo scrittore entra benedicente in un contesto che solo in parte gli appartiene e vi porta, insieme all’eco del vasto mondo, una nuova consapevolezza della condizione ebraica, tesa tra la critica dell’immobilismo e il sospetto ‘nietzschiano’ per gli inganni della modernità e del progresso (America compresa).

Per questo Kasrilevke, popolata da un manipolo di uomini semplici, i Meyer, gli Schneidel, i Seidel, con santi rabbini, qualche donna sbiadita e neanche un chassid, ha ben poco dell’idillio «amabile e struggente» (così Magris) del buon mondo antico, e si configura invece come eccezionale laboratorio di scrittura e di pedagogia letteraria.

Dell’immensa saga, Panico nello shtetl, Bollati Boringhieri (a cura e per la traduzione dal tedesco di Giulio Schiavoni, pp. 28, euro 19,00) propone una ampia antologia di racconti scritti tra il 1901 e il 1915 e scelti in modo che emergano le tante modulazioni di un affresco infinito. Solo tre, irrinunciabili novelle ricalcano quelle pubblicate nelle meritorie edizioni di Bompiani del 1962 e del 1982; per il resto, Schiavoni pubblica frammenti della vita di Kasrilevke ‘inediti’ in Italia, attento soprattutto agli aspetti religiosi di quella comunità tutta letteraria e a dosare gli effetti comici e drammatici che tanto caratterizzano la scrittura di Sholem Aleichem.

Intrecciando da raffinato modernista centri e periferie, realtà e affabulazione, tempo e eternità, Sholem Aleichem racconta in tutte le lingue dell’ebraismo mitteleuropeo le vicende di questo shtetl con affettuosa e ironica distanza. Le descrive come i protagonisti o anche dei semplici osservatori avrebbero potuto narrarle, facendo attenzione alle pause, all’ammiccare furbesco, alle modulazioni della voce, ma sempre molto attento a non sostituirsi al narratore.
Molti e confusi spunti di attualità

In questa distanza c’è spazio per la risata, complice e liberatoria e per la storia, quella ebraica come anche quella del vasto mondo, considerate senza i fremiti rivoluzionari di altri scrittori dello shtetl, da Isaac Meir Weissenberg a Semën An-ski.

Sono molti e un po’ confusi i frammenti di attualità che giungono fino a Kasrilevke: la guerra dei Boeri, le vicende della Cina, l’assassinio di Obrenovic, le idee rivoluzionarie, le sconvolgenti notizie sui pogrom. Gli abitanti ne parlano con eccitata partecipazione perché «per quanto piccola, povera, misera e dimenticata da Dio possa essere, Kasrilevke è legata al resto del mondo come da un filo invisibile: se lo si tira da un’estremità, lo si può sentire immediatamente anche dall’altra». Anche l’affaire Dreyfus Semën An-ski – in «Dreyfus a Kasrilevke » – ha una eco tutta particolare: il piccolo e il grande si confrontano, i giudizi morali si sovrappongono ai fatti e i cittadini dello shtetl dimostrano di condividere le emozioni degli «occidentali», mentre l’idea di un riscatto sembra impossessarsi infine di questa comunità bizzarra e moderatamente arroccata.