Dei «grossi frumenti gentili» stanno tra le sue braccia, simbolo di fertilità primaverile. Come «Proserpina lieve», Alda Merini guarda frontale l’obiettivo di Giusy Calia, una delle artiste che più di altri ne è riuscita a ritrarre l’anima sconosciuta e ironica, circa vent’anni fa nella sua casa milanese. Ne sono invece trascorsi esattamente dieci dalla scomparsa della poeta, affezionata al suo Naviglio e a cui in questi giorni è stato dedicato un ponte insieme a molte altre iniziative per omaggiarne la parabola, letteraria e umana. Proprio dal ratto compiuto da Plutone ai danni della figlia di Cerere, a cui si possono facilmente attribuire le fattezze estetiche e sontuose del complesso scultoreo del Bernini, ci si potrebbe avvicinare alla enorme produzione poetica di Merini – difficile da sintetizzare. Chiamata Proserpina nella raccolta Vuoto d’amore (1991), nata appunto il 21 marzo del 1931, le fa da contrappunto il «sequestro» evocato in La pazza della porta accanto (1995), flusso esperienziale di notevole intensità. Sono stati un rapimento alla vita gli anni di internamento, con ricoveri sistematici dalla metà degli anni Sessanta e proseguiti, con meno frequenza, fino alla fine degli anni Settanta.

DI ESPROPRIO allora si può parlare, anche nel caso della lontananza necessaria eppure forzata dalle sue quattro figlie che di recente hanno ricostruito la complessa biografia materna (il sito ufficiale è www.aldamerini.it). Ciò che le è stato sottratto comincia però molto prima, quando durante la guerra i bombardamenti distruggono la sua abitazione e la costringono a spostarsi insieme alla famiglia, interrompe gli studi e vive nel riparo di un mondo che già stava preparando i termini di una espulsione eccentrica, a diversi livelli. Sia tra i tanti che ancora oggi la snobbano, sia tra chi si accosta ai suoi versi come a quelli di un generatore automatico da condividere sui social per tutte le stagioni.
Da sempre attaccata con passione alla scrittura, il suo apprendistato letterario viene sostenuto da Silvana Rovelli, sua professoressa di lettere alle scuole medie che la affida ad Angelo Romanò. Alla fine degli anni Quaranta quando incontra Giacinto Spagnoletti e comincia a frequentare la sua casa; da quel momento la giovanissima Alda entra a far parte di un coté culturale che ha segnato il Novecento e di cui lei, a pieno titolo, è stata presenza numinosa; da Maria Corti, David Maria Turoldo, a Luciano Erba ma soprattutto Giorgio Manganelli – uno dei suoi tormentosi e grandi amori.

È IL 1951 quando entra in contatto con Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, partecipando alla antologia Scheiwiller Poetesse del Novecento; una precocità «disarmante», avvertiva Pier Paolo Pasolini nel recensirne due anni dopo la prima silloge, La presenza di Orfeo. Decisive le sue relazioni, da Giovanni Raboni a Laura Alunno, Alberto Casiraghi ma anche Paolo Volponi e altri ancora. Quanto abbia contato dunque la sua esperienza di sofferenza psichica non può essere espunto dalla temperie in cui è stata immersa, si badi a non fare l’errore di invertire i termini a patto di cadere nell’errore lombrosiano, quando non cialtronesco, di saldare genio e follia. Dall’ accesso privilegiato al mistero della parola invece, è riuscita a dare corpo alla violenza degli elettroshock e al dolore di sapersi tra gli ultimi di cui amava circondarsi; è il caso di Titano, uno dei suoi più recenti sodali senzatetto che ha accolto nella casa di Porta Ticinese fino alla morte di lui. È una dedizione per gli orli del mondo che anche lei ha perimetrato per intero, vero elemento che la differenzia e la rende, ancora oggi, così cara.

NON È UN SENTIMENTO aver conosciuto Gerico, per esempio, né un tentativo di trasmissione didattica bensì la credibilità, di donna e scrittrice, che onora la mistica, materica ed erotica, della parola poetica; dalle plaquette per la Pulcinoelefante alle raccole Crocetti ed Einaudi. Sguardo illanguidito dal fumo della sigaretta sempre accesa, rossetto rosso e smalto sbeccato, Alda Merini non ha mai scelto gli inferi, se non quando ce l’hanno trascinata. Al contempo ha detto la verità della «sua Palestina», di Francesco di Assisi e Maria di Nazareth. E altrettanto non ha mai pensato di aver vissuto senza onorare l’esistenza nella sua parte sacrale, che non è quella aristocratica dei salotti ma il «battesimo» di cui parla nella sua Terra Santa (1984). In quel ponte, sul Naviglio grande, vogliamo allora immaginare Proserpina che cammina nella notte. E ride, perché libera – in fondo – lo è sempre stata.