Quando nel 1964 lo scrittore greco Thòdoros Kallifatidis (1938) lascia il Peloponneso per la Svezia con l’intento di fuggire alla politica repressiva e alla povertà di un paese nel quale non si riconosce, in svedese non sa dire che god morgon. Però conosce a menadito i film di Bergman e ha ascoltato qualche disco svedese.
Nel nuovo passaporto il suo nome diventa Kallifatides, come oggi è conosciuto lo scrittore «svedese». Per vivere lavora come fattorino e lava i piatti in un ristorante di Stoccolma, ma intanto studia la lingua leggendo Strindberg e Hjalmar Söderberg. Cinque anni dopo prende una seconda laurea in filosofia per diventare più tardi docente nella stessa università di Stoccolma.

Oggi è considerato uno dei maggiori scrittori contemporanei di lingua svedese, ha ricevuto numerosi e ambiti premi letterari, e i suoi oltre trenta titoli, tra poesia (soprattutto agli esordi), teatro, romanzi e saggi, sono tradotti in venti lingue, è prolifico traduttore ed è stato direttore del Bonniers litterära magasin, prestigiosissima rivista letteraria svedese, nonché, nel 1995, presidente di Pen Svezia.

SE I SUOI PRIMI LAVORI si sono concentrati sulla condizione (autobiografica) dell’immigrato, per il quale l’integrazione appare un sogno irraggiungibile, una condizione dalla quale sembra non ci si possa mai liberare davvero («Diventai lo straniero di successo e, per quanto provassi, da quel ruolo non riuscivo a liberarmi. Più mi sforzavo di avvicinarmi alla società e alla cultura svedese, più chiaramente ero classificato come straniero. Dopo trenta libri in svedese sono ancora relegato, nella più recente storia letteraria, alla sezione degli scrittori immigrati, una categoria sé stante con propri criteri di valutazione» (Ett nytt la

nd utanför miyy fönster, 2001, «Un paese nuovo fuori dalla mia finestra»), un secondo filone della sua produzione letteraria incontra lo struggente tema dell’amore, coniugato con quello parimenti struggente della libertà. Ed è di questo che tratta il romanzo Timandra, uscito in Grecia nel 1988 e per la prima volta in Italia nel 2002 nell’elegante traduzione di Nicola Crocetti per l’omonima casa editrice, nella collana Aristea (pp. 208, euro 15). Timandra esce ora di nuovo in occasione della recente entrata di Crocetti nel gruppo editoriale Feltrinelli, il che rappresenta un’opportunità per riscoprire un romanzo storico di rara raffinatezza e intelligenza, che narra la fine di Alcibiade, «un uomo che morì com’era vissuto: bruciando».

LA STRAORDINARIA STORIA del figlio più radioso dell’aurea Atene di Pericle, consegnato all’immortalità dalle indimenticabili pagine del Simposio platonico e le cui vicende sono rese note in tutta la loro sconcertante ambiguità – quando non evidente miseria – da fonti illustri quali le Vite parallele di Plutarco, ci è raccontata ora dall’etera Timandra – personaggio realmente esistito, benché poco noto –, l’amante di una vita di Alcibiade, del quale raccolse le ceneri quando, oramai inseguito da tutti, ateniesi, spartani, persiani, il condottiero traditore pagò le ovvie conseguenze del cieco amore di un popolo trasformatosi in odio. E infatti, ancor più che l’amore di un’etera, attraverso le parole della quale incontriamo i volti più celebri della civiltà che ci ha generato, l’infelice/felice storia d’amore di cui Timandra sembra rendere ancor più testimonianza è in realtà quella tra Alcibiade e la sofisticata città di Atene, un amore che ha tutto l’acerbo sapore dell’infatuazione egologica di una civiltà destinata alla rovina.

Un’infatuazione che passa attraverso gli occhi e le parole, perché «la realtà è solo un pretesto per vedere qualcos’altro», così che «se Pericle si comportava con gli Ateniesi come se fossero suoi figli e figlie, Alcibiade si comportava come se tutti, uomini e donne, fossero suoi amanti. Pericle li consigliava e li guidava, Alcibiade li seduceva».

Un solo uomo riuscì a smascherare Alcibiade svergognando quell’abbagliante nulla che aveva conquistato Atene: Socrate, ma la sua fine è nota. Timandra, non certo una moralista nel senso rozzo del termine, e proprio per questo donna sapiente (Kallifatidis è magistrale nell’indossare i panni femminili: «La libertà per me è sempre stata qualcosa che mi sono lasciato alle spalle. Prima ho abbandonato il mio villaggio, poi la mia città, poi il mio Paese, poi la mia lingua. Con Timandra ho abbandonato il genere maschile»), è brava nel mettere a nudo l’anima dell’uomo che ama, ha capito che la vera sventura di un uomo che dalla vita ha avuto tutto (bellezza, intelligenza, nobili natali, ricchezza), è la mancanza di un senso, di un intangibile ed eterno approdo spirituale: «La mia angoscia per il senso della vita lo faceva innervosire. «’La vita è. Non significa niente’ diceva. Così ha reciso i legami con la tradizione senza che i legami con il futuro fossero pronti’».

La riflessione di Timandra a partire dagli ultimi giorni di fuga in Frigia con l’amato dopo il fallimento della spedizione in Sicilia (siamo nell’ultimo decennio del radioso V secolo a.C), diventa così anche riflessione su un’intera stagione politica ateniese, sul rischio costante di caduta della democrazia in demagogia – un giovane Platone, anch’egli tra i personaggi del romanzo, un giorno l’avrebbe spiegato bene – e sull’infausta sorte di Atene, la cui anima è rappresentata tanto da Socrate quanto dai sofisti, perché la parola, ancora una volta, è tutto: , è tanto veicolo di verità quanto cavalcatura di menzogna: «Gli uomini amano le parole. (…) Sono la loro estrema realtà. Senza le parole un uomo non è muto, è inesistente».

MA A QUESTA LOTTA INTESTINA di fantasmi ad Atene, gli Spartani rispondono con il corpo, «per loro gli uomini che parlavano troppo mentivano oppure erano pazzi, o entrambe le cose. Per gli Spartani l’orgoglio è la mancanza di diffidenza, di timori indefiniti. Il loro orgoglio consiste nel potersi sempre guardare reciprocamente negli occhi, mentre non esiste Ateniese di sette anni compiuti che non abbia perduto la purezza dello sguardo (…)». Quando manca un ideale condiviso, tra i fatti e le interpretazioni vincono i fatti, quelli bruti.

E così Timandra arriva a concludere che, legittimo figlio di Atene, un Alcibiade non più giovanissimo finisce per soccombere nella lotta contro la sua libertà così come altri soccombono invece nella lotta contro la schiavitù. Cos’è una libertà senza un fine? La storia insegna che «la barbarie e la giovinezza alla fine vincono sempre, e le sconfigge soltanto il tempo, che porta nuovi giovani barbari».