Visioni

«Alcarràs», la vita in campagna come memoria famigliare

«Alcarràs», la vita in campagna come memoria famigliare«Alcarràs» di Carla Simón

Al cinema Il film di Carla Simón, Orso d’oro alla Berlinale, una storia contadina nella lente dell’infanzia

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 9 giugno 2022

È ancora in sala questi giorni – ultimi di una stagione di crisi le cui cause, finestra tra piattaforme e uscita in sala in primis andrebbero assai discusse per evitare il tracollo in quella successiva – Alcarràs, Orso d’oro alla scorsa Berlinale e opera seconda della regista catalana Carla Simón che si era già imposta all’attenzione, almeno quella festivaliera, con il suo esordio, Estate 1993 (2017) di cui ritrova in questo alcuni spunti e scelte formali come il lavoro con gli attori non professionisti e la capacità di lasciar fluire nelle immagini la vita quotidiana. Ma soprattutto la narrazione autobiografica nutrita dai propri ricordi, qui le estati nella stessa zona della Spagna, la Catalogna – dove si trova la cittadina da cui il film prende il titolo – che trasforma in materia di racconto proprio come fanno i bimbi e le bimbe che nel film rendono teatro le storie degli adulti. È in questa distanza di una messinscena moltiplicata – quella dei bambini, le figure più riuscite e quella della regista – che il racconto prende vita, e dove avvengono i passaggi (e le frizioni) generazionali – dai nonni ai padri ai nipoti – nei quali filtra insieme al vissuto personale una storia (forse) collettiva. Ma in che modo?

È SOPRATTUTTO la memoria famigliare che la nutre e che vi partecipa restituita nell’incanto estivo senza spigoli, malgrado le difficoltà, se non quelli dei conflitti individuali in fondo sempre ricomponibili nello spazio famigliare. I Solè, i protagonisti, vivono da anni del raccolto delle pesche su un terreno che non è loro ma che gli è stato dato in usufrutto dal vecchio proprietario a cui avevano salvato la vita nascondendolo durante la Rivoluzione spagnola – presumibilmente dai rivoluzionari. Il nonno ancora lo ricorda e in questo patto «paternalistico» ci crede tanto che proprio non riesce a accettare che il figlio di questi abbia deciso di scacciarli per installare un po’ come ovunque nella zona i pannelli solari. Ecologia contro natura, o piuttosto le solite logiche del capitalismo e dei grandi proprietari terrieri? Il padre, Rogelio, un misto di patriarcato e di rabbia un po’ ottusa, non vuole cedere: con testardaggine raccoglie le sue pesche anche se nessuno accetta di lavorare per lui e gli altri si sono accordati per il più facile guadagno delle pale eoliche. Lo aiutano il figlio, i famigliari, la figlia adolescente, la moglie che subisce i suoi mal di schiena e le sfuriate, le donne più anziane, il nonno malandato. I ragazzi però mal sopportano la situazione, forse vogliono altro, pensano a un’ altra vita non in campagna, lui coltiva di nascosto piantine di marijuana mentre lei si esercita con le amiche per il numero di danza alla festa del paese – e come le amiche vorrebbe una maggiore libertà.
I più scatenati – e anche ignari – sono i ragazzini, la sorellina piccola dei due e i cuginetti gemelli che la seguono ovunque pazzi di lei e della sua fantasia, che subiranno le liti famigliari con una separazione. Intanto i prezzi della frutta crollano, gli agricoltori rischiano la fame per i giochi di mercato, ma il padre Solé non vuole partecipare alle proteste come se il suo problema non fosse in quelle battaglie. È che però nessuno di loro prova a resistere davvero, cioè dentro a una lotta comune: il nonno porta i regali disprezzati ai nuovi padroni – segno di uno sfruttamento così introiettato da essere visione del mondo – mentre i ragazzi nella loro ribellione sembrano voler contrastare il mondo dei loro genitori.

LA REGISTA nei materiali stampa del film dice che voleva rendere omaggio a quell’agricoltura famigliare che oggi è risucchiata dalle colture estese delle grandi multinazionali, e dalle logiche del profitto che si impongono sulle parole date – tipo quella proprietario ai Solè. Forse le sfuggono anni di battaglie contro i padroni delle terre che i contadini, parola o meno, li sfruttavano nel modo più bieco – e li sfruttano tuttora. Il punto è che non basta l’«isola» della famiglia ritrovata senza un orizzonte di rivendicazioni comune. Ma questo alla regista sembra non interessare, preferisce il dosaggio attento (e ammiccante) di elementi emotivi, i dettagli graziosi decisi i dalla sceneggiatura (di cui è autrice). L’aria (consensuale) dei tempi soffia tra quegli alberi destinati a scomparire con quel fastidioso sentimento (assai reazionario) anch’esso ben sintonizzato col presente che cancella ogni ipotesi di resistenza comune.

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