È questa la quarta nota del Divano dedicata ad Alberto Burri. La terza si chiudeva prendendo in considerazione un olio del 1944, Paesaggio dove, fin dagli inizi della sua ricerca pittorica, si diceva, si attesta in Burri l’esigenza di conferire al colore una integrale ed esaustiva sua autonomia di materia.

La nostra riflessione sul colore in Burri ha preso avvio da una analisi dei rossi, dei bianchi e dei neri per come sono accostati nella loro purezza nel San Carlo indica ai fedeli la reliquia del Sacro Chiodo di Carlo Saraceni, conservato nella chiesa di San Lorenzo in Lucina a Roma, opera del secondo decennio del Seicento. Le vaste campiture monocromatiche di Saraceni ci appaiono, dicevamo, tale una irrinunciabile acquisizione in pittura che adeguatamente si attestano come premessa (o vero e proprio precedente) al trattamento ed alla funzione del colore quali sono perseguiti nella ricerca di Burri. Del resto, non un semplice raccordo d’elezione con Saraceni (e segnatamente con Il Sacro Chiodo di San Lorenzo in Lucina) ho avuto modo di constatare, con mia grande e felice sorpresa, osservando Rosso del 1956 (cm. 186×190, di proprietà dell’artista) che trovo riprodotto (tavola n° 37) da Cesare Brandi nella sua monografia su Burri (Editalia, 1963).

Infatti Rosso si presenta quasi come una parafrasi esplicita del testo di Saraceni. Su un rosso panno, il bianco di stole e d’un corsetto applicati con un bagno di colla liquida: si son fissate le pieghe, le crespe di quelle tele raggrinzate. Vedi quegli stessi bianchi lini e quelle sete, che restano intatti nelle velature di Saraceni e nella stesura del rosso tessuto cardinalizio smagliante da tre secoli, esaltati ora da Burri nelle lacerazioni e negli sciupii, magnificati negli insulti di innominabili oltraggi. Si è detto che nel rapido giro di cinque, sei anni, a cavaliere del 1950, il colore sarà assunto da Burri come un in sé compiuto, come un dato primario e perfetto, cioè già pervenuto a finitezza, al suo proprio compimento intendo dire, ovverosia terminato.

Dunque il colore puro, originario, ineccepibile. Ovvero non suscettibile di ulteriore quale che sia obiezione e, per tanto, compiuto. Fino, per questa via, ad essere inteso da Burri come una nozione preliminare, un fatto accertato. Diresti un ubi consistere acquisito, nella sua cognizione di pittore, una volta per sempre. Dunque colore: alcunché di non ‘trattabile’, di non plasmabile. Esso è già, è un consistere, disponibile, nella creazione di Burri, come tale ovvero pronto ad essere – eventualmente – recinto, inserito, collocato, ordinato, installato. Infatti, nella sua opera, è come tale, ut sic, che esso, il colore, si attesta: un elemento costitutivo d’una possibile forma che si voglia configurare.

Non un ready made, ma un alcunché che si rivela ‘pronto’ ad essere impiegato. Da qui traggono significato titoli come Sacco e oro (1953) o Legno e Bianco (1956). Bianco e oro equiparati alla materia del sacco e del legno. “Il fatto nuovo in Burri, ha scritto Cesare Brandi, è che la materia, il sacco come materia o il legno o la carta combusta ecc., è data in proprio e deve rimanere materia”. Rimanere materia: dunque, senza perdere nemmeno una delle determinazioni che la qualificano nella pienezza delle sue attribuzioni.

Ciascuna materia entra tal quale, ut sic consistens, nel ‘quadro’. Vi è acclusa – la canapa come canapa, il ferro come ferro, il rosso come rosso il nero come nero, il legno come legno. È la eloquenza propria della canapa o del bianco o del ferro, tutt’uno con la consistenza (la firmitas, la stabilitas del consistere) che a ciascuna materia inerisce che Burri mette in mostra.

Assume, nell’operare, questo già fatto della materia colore, come il già fatto della iuta del sacco o dell’asse di legno. L’eloquenza della materia è consegnata da Burri all’osservatore nella disposizione in forma di pittura. “Eloquenza, arte e potenza di persuadere, di muovere, insegna Niccolò Tommaseo, e più può sull’animo: a muoverlo, a intenerirlo, a innalzarlo”. È nell’animo dell’osservatore, “nell’adattamento che l’osservatore fa all’opera” per dirla con parole di Brandi, che si compie l’andamento persuasivo, emotivo e di accrescimento mirabile e magnifico della materia di Burri.