Si muove sul terreno sconnesso di questo presente la riflessione corale che si è tenuta a Berlino sull’eredità del lavoro di Albert Hirschman, economista dello sviluppo, pensatore, antifascista militante e inventore di quel filone di studio che culmina in quella «Passione per il possibile», cui è stata dedicata la conferenza. Grande il suo merito nel connettere politica ed economia, esplorando le conseguenze incentivanti o disicentivanti delle risposte sociali categorizzabili in Lealtà, defezione e protesta (1970) o rileggendo la storia come nel suo saggio più bello Le passioni e gli interessi (1977) dedicato alla coincidenza del concetto di «interesse» con lo sviluppo del capitalismo moderno. Questa eredità viene riletta nei giorni berlinesi per provare a lanciare il cuore oltre lo stesso progetto federalista, immaginando, come scrisse negli articoli del 1941 e del 1942, una unione europea come punto intermedio verso un universalismo dei diritti.

ALL’ECONOMISTA è dedicato il lavoro di anni, che Luca Meldolesi e Nicoletta Stame – promotori delle conferenze (dopo Boston e Washington) e della Fondazione Colorni Hirschman – portano avanti utilizzando i pensieri iscritti nella genealogia di una architettura istituzionale, prima di tutto e soprattutto, solidale. Replicano, nel loro muoversi trasnazionale e multidisciplinare, il metodo di rete che fece di quell’incontro tra «ribelli competenti», sull’isola di Ventotene prima e tra le varie capitali poi, la più solida leva contro il fascismo.
Si tratta di metodologia e contenuti cui la pericolosità attuale chiede di guardare per inventarsi il modo in grado di fare da detonatore a quello che nei due giorni di conferenza aleggia come il paradosso diabolico: sono i sovranismi, ora, a processo politico più «internazionalista». Agiscono nelle duplicazioni dei muri di confino, da quello messicano voluto da Trump, a quello balcanico costruito dall’odio di Victor Orban, passando per gli osceni morti nel Mediterraneo e i respingimenti salviniani. Contro questo, «la passione per il possibile» è guardata da tutti i relatori come la finestra da aprire per sfuggire alla trappola dell’immobilità, data dalla immonda coincidenza tra impossibile e necessario, esplorata, in apertura della conferenza, da Clause Offe, sociologo marxista che all’Europa ha dedicato i suoi ultimi lavori.
«Cosa è andato storto?», si è domandato il politologo Baruch Knei Paz, noto per i suoi lavori su Leon Trotsky, che ha saputo innestare nella discussione collettiva anche visioni di nuove geometrie istituzionali, ricordando che il cooperativismo dei kibbutz è un esempio interessante di come «la forma delle istituzioni debba corrispondere alla loro missione».

L’APPUNTAMENTO berlinese ha voluto indagare e assumere lo spirito originario, quello che costruì il cuore, l’aspetto sentimentale e impalpabile, del Manifesto di Ventotene. Si dice, nelle relazioni di chiusura, che il federalismo europeo sia da intendersi solo come uno dei momenti di un più ampio progetto di diffusione, ovunque, dei diritti fondamentali dell’uomo. Si sconfessa la menzogna culturale – che il confine impone – nel creare una linea tra chi ha diritto ai diritti e chi non ne ha. Si ricorda, come ha fatto Osvaldo Feinstein dell’Università di Madrid, che l’«Europa non è il centro del sistema» e che ora ha senso parlarne solo affinché possa diventare una sorta di marchio di certificazione per politiche di riduzione della povertà e di aumento delle libertà sociali.
Tra gli assiomi di Hirschman più belli c’è quello che ricorda che «tutto ciò che non è incoraggiante è sbagliato». E che credere a un possibile da costruire sia l’unica strada per ingannare la mortale trappola della rassegnazione. Perché la passione per il possibile si risolve nella determinazione di una «dinamicità dei movimenti di costruzione del nuovo», incrementando competenze e riducendo la parte morta delle nostre capacità collettive. E così dall’economia alla sociologia, dalla storia alle scienze politiche si afferma che il cuore degli uomini è tra più importanti beni comuni. E che il lavoro da fare, visto lo stato di cose, è enorme. Questo metodo Amartya Sen lo ha definito «l’ottimismo scettico».