La mattina del 25 novembre 1970, nelle vicinanze del molo di Congress Street, Brooklyn, fu trovato il corpo di un giovane afroamericano. Il medico legale, da un’occhiata al corpo, diagnosticò una morte per asfissia da annegamento, ipotesi più che fondata: suicidio. Non ci fu successiva autopsia, anche se qualche mese dopo cominciò a circolare la voce che la testa presentava una ferita di arma da fuoco. O che forse c’era traccia di una coltellata alla schiena. Era il corpo trentaquattrenne di una delle presenza più intensamente avvampanti mai apparse sulla scena internazionale del jazz creativo. Il mite e fiammeggiante Albert Ayler, che di sé diceva: «Coltrane era il padre. Pharoah Sanders il figlio, io lo spirito santo». Tanto per chiarire subito che quel jazz che si suonava sistematicamente dallo scorcio degli anni Sessanta era materia speciale, storia di una consapevolezza che poteva comprendere, vertiginosamente, il bordo più «politico» della coscienza nera disillusa e in diretta relazione con il marxismo riletto in chiave afroamericana (Archie Shepp), e altresì uno sgargiante, festoso atto d’amore per il pianeta esteso a tutte le forme creaturali.
La New Thing dunque (o il free jazz, se volete usare una definizione molto meno precisa) come una sorta di «spiritualità applicata» in musica, e declinata in un pantheon sacro legato a doppio filo alla storia di chi aveva avuto gli avi diretti in catene. Il sacro nel jazz: tant’è che, dopo la morte di Trane, nacque anche una chiesa che tuttora lo venera come un santo, e ne suona sistematicamente le musiche alle funzioni. Albert Ayler, che al funerale di John Coltrane suonò con un’intensità belluina, soffocato dal dolore (si interruppe diverse volte per mettersi a gridare, esattamente come aveva fatto Trane nei suoi ultimi concerti, simmetricamente) fu un altro dei giganti di quel suono totale e spirituale, e la sua vicenda artistica una delle parabole più intense e ustionanti tra le molte conosciute dalla storia nel jazz nel suo complesso. A prezzo di sé stesso, si può già anticipare, rileggendo la vicenda di quella triste mattina di mezzo secolo fa in cui decise che nel mondo non c’era più posto per uno come lui, una delle personificazioni più dolcemente urticanti di quello che l’Art Ensemble of Chicago di Roscoe Mitchell e Lester Bowie avrebbe definito, nel complesso, «Great Black Music», la Grande musica nera onnicomprensiva. Se il jazz è, anche e soprattutto, personificazione individuale di un suono, nel pieno rispetto e esaltazione della «macchina biologica» che lo governa, opposto speculare, dunque dell’ideale estetico di astratta purezza di intonazione e fedeltà allo spartito delle note eurocolte, Ayler ne è stato uno dei campioni fenomenali e fondamentali: Sonny Rollins, Ornette Coleman, John Coltrane, John Tchicai, Pharoah Sanders hanno saputo approcciare e dominare gli «overtones», gli armonici del sassofono: Albert Ayler, come ha scritto Val Wilmer, su quella tecnica, e affrontata con una durissima ancia di plastica, ci ha costruito un’estetica: dominando acuti picchi inquietanti di registro, e al contempo manovrando con la parte posteriore della gola per produrre abissali effetti gutturali.

ESTETICA BRUCIANTE
Chi praticava il rhythm and blues col piede sempre sull’acceleratore li conosceva quegli effetti: Ayler ci costruì sopra un’estetica bruciante che saltava di netto le velocissime asimmetrie del bop, ricollegandosi direttamente a un grido-canto che era preghiera: Moanin’ and Screamin’. Oltre a tutto quanto possiamo ascoltare sui dischi incisi dal vivo (e sono molti e tutti intensi), abbiamo una testimonianza ben raccontata di Ted Joans, poeta dell’Illinois e anche trombettista, cui capitò di assistere all’inizio di un concerto di Albert Ayler in un club di Copenaghen. Accanto aveva seduto Albert Nicholas , eccellente clarinettista «trad» che stava discutendo di ance con altri due musicisti. Poi Albert Ayler , assieme a Don Cherry, Gary Peacock e Sunny Murray attaccarono, di botto. «Le mani di Albert Nicholas, racconta Joans, cominciarono a tremare, brividi gli correvano lungo la spina dorsale. I ragazzi con cui chiacchierava sbiancarono, poi le loro facce diventarono rosso fuoco, e coperte di sudore. L’intero locale scosso dalle fondamenta. Era come un’onda gigantesca di musica che annichiliva, terrorizzava. Nessuno poteva restarne immune: alcuni danesi si misero a fischiare, altri a gridare di smetterla. Io rimasi seduto, incapace di fare alcunché, e affascinato da quanto stava succedendo e consapevole di essere testimone di qualcosa di unico. Non era mai esistita una musica come quella».
Albert Ayler era nato a Cleveland, Ohio, il 13 luglio 1936. Suo padre suonava il sax, cantava e aveva anche buona pratica del violino. Albert fu attratto dagli strumenti a fiato sin da piccolissimo, e dalla musica jazz che gli arrivava dalla radio. Suo padre gli mise in mano un contralto, in casa giravano i dischi di Lester Young, di Charlie Parker, di Wardell Grey. A dieci anni studi musicali regolari, per i successivi sette anni: ma nella marchin’ band il giovane Ayler insiste a non volere le partiture. Concesso, a patto di non sbagliare neppure una croma scritta: e lui, il musicista che poi accuseranno di essere solo un selvaggio frenetico non sbaglia mai, in qualsiasi condizione. I primi ingaggi sono nel rhythm and blues, palestra necessaria e inevitabile di tanti grandi del sax: ma l’approccio e poi il lavoro con il grande bluesman armonicista della Louisiana Little Walter Jacobs, che suona lo strumentino con uno stupefacente approccio cromatico, sarà decisivo: «Blues e rhythm and blues. Non ti devono mancare. Devi averceli dentro per fare quello che farai dopo», raccontava Ayler, centrando in pieno la sua futura estetica, arricchita però anche del senso festoso delle marce imparate alla scuola musicale, e delle inflessioni gospel ascoltate in chiesa. Ma il rhythm and blues avrà una bella finestra di visibilità, prepotente, anche nell’ultimo scorcio di vita.
A ventidue anni Ayler è nell’esercito, nella banda: il tempo libero lo dedica a cercare un proprio suono. Poi in Europa, a Orleans e a Parigi. Si guarda intorno, assorbe tutta la radicata tradizione bandistica rafforzata da Napoleone, adora suonare la Marsigliese e segni forti ne resteranno in uno dei suoi capolavori maturi, Spirits Rejoice. Intanto passa finalmente al sax tenore, perché «quando i neri hanno dovuto tirare fuori la loro vera anima con uno strumento, l’hanno fatto con un sax tenore. Con un tenore puoi descrivere tutto quanto si prova in un ghetto. Puoi gridare e raccontare la verità». Ecco un’altra descrizione di come sarà poi il suono di Albert Ayler: anima, grido, marcia luminosa, verità. Arriva però anche il momento della frustrazione. Quando rientra a Cleveland è già andato troppo oltre, nessuno capisce cosa voglia ottenere con quel suono accorato ed espressionistico nelle sue dinamiche impattanti, e che ora accorpa anche molti spiritual, suonati con una foga quasi dolorosa. Racconta a orecchie che non lo ascoltano più che ha scoperto «la vera musica e la vera religione», è inquieto e smanioso di fare altro, con i pochi soldi raggranellati torna in Europa, in Svezia.
Il 25 ottobre del ’62 lo registrano per la prima volta, all’Accademia delle Arti di Stoccolma: chi lo accompagna non riesce neppure a concepire cosa Ayler stia suonando. Tre mesi dopo lo invitano a una trasmissione radio a Copenaghen: incide i brani (anche al soprano) che finiranno sul disco Debut, My Name is Albert Ayler. Pathos soverchiante, scarsa affinità con chi lo deve sostenere nei suoi primi voli brucianti.

UNA MUSICA UMANA
Meglio vanno quando incrocia le piste con un giovane Cecil Taylor: ci sono più motivi d’intesa che di scontro, con quell’omino che percuote i tasti, come s’è scritto, «come se fossero ottantotto tamburi intonati». Ci vorranno altri due anni prima che Albert Ayler trovi i compagni giusti per contenere e al tempo stesso esaltare quella miscela ustionante che gli ribolle dentro, che gli porta le grida, le invettive, le risate della «sua» gente portata in catene da un altro continente, non più africana, non ancora americana a pieno diritto. Una mossa in quella direzione è con Spiritual Unity, con Sunny Murray alla batteria e Gary Peacock al contrabbasso: c’è dentro Ghosts, spettri, fantasmi, un brano totemico, da lì in avanti, per indicare il cuore profondo della sua musica memore. Il passo giusto arriva nel 1964, quando Ayler si mette a fianco Don Cherry, il sagace trombettista suo coetaneo che generalmente imbraccia la pocket trumpet, la tromba che sembra quasi un giocattolo, e che con Ornette Coleman, altro talento mercuriale all’inizio come lui considerato solo «uno che non sa suonare», ha contribuito a stabilire le scottanti coordinate del nuovo nell’«year that changed jazz», il 1959. Don Cherry è un partner ideale per Ayler, con il suo suono esplosivo e slabbrato, e gli unisono dei fiati sfalsati di qualche frazione di secondo, la voluta noncuranza per il suono ben temperato occidentale: però, paradosso della storia che si diverte sempre a sparigliare le carte, è proprio nella vecchia Europa che Ayler con Cherry incide il suo primo vero capolavoro, Vibrations, a Copenaghen. C’è una doppia versione di Ghosts, c’è Holy Spirit, c’è Mother: il sax ha preso una deriva infuocata e dolente, una danza tra angoscia e consapevolezza gioiosa sui limiti dell’abisso dell’indicibile.
L’anno dopo Ayler rimescola le carte: cambia la ritmica, fa entrare in organico suo fratello Donald Ayler alla tromba, che di Cherry è un problematico epigono, e Charles Tyler al baritono e al contralto. Alla Town Hall di New York, il 1 maggio del ’65 Ayler incide Bells, un’opera di belluina potenza, i tre fiati tutti in avanti, a ricordare, al contempo, un’eco prepotente dei fiati eterofonici di New Orleans che facevano sussultare le strade, e la formidabile lezione bandistica e spiritual che ormai Ayler ha introiettato come la «sua» musica. Dichiara: «Possiamo riuscire ad arrivare a una Divina Armonia e a un Ritmo Divino che si vada a situare oltre quanto viene considerato armonia». Sta perfino smettendo di considerare la sua musica jazz, racconta agli intervistatori che sua madre non ha partorito un musicista di jazz, ma un essere umano che suona musica umana. Musica umana: qui forse è la chiave per capire Ayler. Significa tutto quanto può entrare nel suo orizzonte di formazione, di radici, di cultura personale, di ascoltato nella sua comunità. Che è quella afroamericana, e dunque nella comunità afroamericana ancora hanno polmoni e fiato le voci degli spiriti, per quanto «normalizzati» negli assetti liturgici canonici, e tollerati nelle debordanti derive soul, rhythm and blues, gospel che confinano con la «trance». Ayler è, ormai, un predicatore in marcia, nel senso letterale del termine. Perfettamente consapevole di essere anche un innovatore, come lo fu Louis Armstrong quando ottenne carta bianca dalla Okeh quarant’anni prima di lui per incidere quello che voleva, non quello che era conveniente e consigliato.

ESPRESSIONI FOLK
Ayler è conscio e inquieto al contempo, lo testimoniano i continui rimaneggiamenti nei suoi gruppi, come se nessuno riuscisse a tenergli testa a lungo nella spirituale e iperenergetica musica che Ayler erutta dal suo sax tenore: profondamente «folk», perché ormai radicata nelle melodie popolari, profondamente libera nel trattamento espressionistico. Lo dichiara lui stesso alla rivista Down Beat, nel ’66: «Amo suonare cose che la gente può riuscire a canticchiare, canzoni come quelle che cantava da bambino. Melodie semplici come punto di partenza, e alte che intervengono nel brano che sto suonando». Si può verificare su dischi splendidi e fumiganti come In Greenwich Village, per la Impulse (la casa di John Coltrane) dal vivo nel quartiere dove, peraltro, sta nascendo il nuovo folk impegnato, con un gruppo che prevede la presenza di due bassisti (come stanno sperimentando anche Coltrane e Coleman), un modo per pararsi le spalle con un dialogo di sostegno continuo che scongiuri ogni horror vacui nel «pieno» delle cose da raccontare con la musica.
Coltrane, che è già una figura quasi «sacralizzata», nel jazz di quegli anni, riceve un degno e ben giustificato omaggio da Ayler con For John Coltrane, in cui il sassofonista di Cleveland torna a imbracciare il sax contralto, quasi a dire che non è il luogo per un confronto, quello, ma per un atto di riconoscimento a chi vive in prima persona la grande spiritualità afroamericana. Il rapporto di Ayler con Coltrane è complesso e affascinante: Coltrane, che sta arrivando al bordo estremo della sua musica, sente di essere profondamente influenzato da Ayler, come se l’uomo di Cleveland che ha dieci anni meno di lui avesse bruciato le tappe. Si sentono continuamente al telefono, si mandano telegrammi. Quando Coltrane incide il magmatico capolavoro della New Thing, Ascension, telefona ad Ayler e gli dice: «Ho registrato un disco, e ho scoperto che suonava esattamente come suoni te». Ayler gli risponde: «No, tu suonavi te stesso. Il fatto è che sentivi in quel momento quello che sento io, e tutti e due stavamo supplicando l’Unità Spirituale». Al funerale di Coltrane lui, col fratello, suonerà «la Nostra Preghiera», e «La verità si avvicina a passo di marcia».

SENZA CONFINI
A questo punto Ayler incontra una sua musa speciale, Mary Parks, secondo molti amici di Ayler al contempo uno stimolo, e l’inizio della fine per la musica di Ayler. Lei scrive testi, suona il piano e l’arpa, il sax soprano, suonano insieme per ore alla ricerca di qualcosa di altro, di nuovo, «something else», per dirla con le parole di Ornette Coleman. La ricerca, alla fine, coincide con le origini vere del suo suono abrasivo e circense, festoso e dolente assieme: il cerchio si chiude sul rhythm and blues. Nel settembre del 1968, Ayler incide New Grass. C’è un gruppo di rhythm and blues, con il basso elettrico di Bill Folwell e la batteria squadrata di Bernard «Pretty» Purdie, c’è un duo gospel che gli fa da contraltare, mentre lui si ritrova a cantare testi misticheggianti. La critica l’attacca, il pubblico bianco non è pronto per quella musica liminare e in una terra di nessuno, dove trova posto anche una solare versione di Ghosts in chiave caraibica e funky come avrebbe poi amato suonare, un dodicennio dopo, il Sonny Rollins dei dischi considerati «commerciali». Invece New Grass contiene molti buoni spunti, e farà da modello, un cinquantennio dopo, per le generazioni attuali di nuovi jazzisti neri senza confini stilistici, uno su tutti Shabaka Hutchings.
Le convulse sedute d’incisione che faranno seguito a quel disco spartiacque sembrano muoversi, contemporaneamente, in ogni direzione possibile, e con ogni organico possibile per quanto la Impulse abbia cercato poi di riordinarle in due distinti lavori, Music is the Healing Force of the Universe e The Last Album: all’opera due settetti, tre quintetti, un quartetto, sei sestetti, un duetto, che resta una delle cose più particolari lasciateci dal fiammeggiante musicista di Cleveland: Ayler intreccia un dialogo con Henry Vestine, il chitarrista rock blues dei Canned Heat che scrissero uno degli inni di Woodstock, ma tra le braccia ha una cornamusa. C’è il blues, c’è il gospel, c’è la spoken poetry della compagna Mary, ci sono le fiammate «free», c’è la sperimentazione totale, c’è il ricordo delle ultimissime cose lasciate da Coltrane, ad esempio un’eco dei brani pacificati e liberi di Expression.
Nel luglio del 1970, la storia rimarca un’altra data importante per Ayler, forse l’ultimo incendio: Ayler viene inviato a suonare a Saint Paul de Vence, la cittadina francese dove aveva scelto di vivere lo scrittore James Baldwin. Le «notti della Fondazione Maeght», pubblicate dopo la sua morte, segnano un punto apicale della furiosa forza liturgica e sulfurea della musica di Ayler, quasi che, presentendo la sua scomparsa, pochi mesi dopo, Ayler avesse voluto lasciare un ultimo segno forte di chi era stato, al di là del pulviscolare reticolo di interessi che stava ormai caratterizzando la sua nuova musica tutta ben poco accettata. Resta il buco delle sue ultime due settimane, un buco nero con scarse annotazioni: di sicuro Albert era giù di corda, di sicuro si sentiva responsabile per non aver voluto più accanto il fratello, che se n’era tornato a Cleveland con un esaurimento nervoso e aveva smesso mestamente di suonare, di sicuro viene adocchiato in piena estate a New York con indosso una lunga pelliccia, i guanti , e il volto coperto di vaselina, perché, pare abbia detto, «devo proteggermi». Ma c’è chi dice di averlo visto raggiante e carico, ben vestito e in compagnia delle sue coriste ansioso di incidere un nuovo disco e di intraprendere un tour in Giappone. E ancora che chi parla di un Ayler sconfitto, franto interiormente, e deciso lucidamente a farla finita dopo aver intestato tutti i diritti delle sue composizioni alla compagna, perché almeno lei godesse di un po’ di buona fortuna economica grazie alla sua morte e all’inevitabile rilancio di notorietà dei suoi dischi. Ayler ha scelto di annegarsi: nel gesto simbolico c’è tutta la squassante tragicità di un sassofonista posseduto dai propri demoni che decide di rinunciare all’aria nei polmoni, che lanciavano il grido liberatorio, per murarsi nell’angoscia del silenzio dell’acqua dell’East River.