«È davvero l’elaborazione di un dolore personale», afferma Alba Zari (Bangkok 1987, vive e lavora a Londra) parlando del progetto The Y, vincitore della VI edizione del Premio Graziadei per la fotografia a cui è seguito Occult . Tra i due lavori fotografici c’è un’idea di continuità che va oltre la dimensione artistica. Entrambi sono costruiti intorno a un’indagine intima e familiare diluita in un tempo compreso tra gli anni ’80 ed oggi, affrontata senza retorica in cui la fotografia – come la memoria – è un documento interpretabile e manipolabile. Nel libro appena uscito Aba Zari (NFC edizioni), le fotografie sott’acqua ispirate dai brani musicali Crystal dei Fleetwood Mac e How Deep is The Ocean di Chet Baker parlano dell’amore e delle relazioni amorose «come se fossero mareggiate».

Sia in The Y che in Occult la famiglia e l’archivio sono il filo conduttore della narrazione…
Sì. The Y, che è stato premiato da Graziadei ed è stato esposto nel 2019 sempre al MAXXI, è un progetto più legato al tema dell’identità, sulla ricerca di mio padre, in cui ho utilizzato una parte dell’archivio riflettendo sulla natura del documento fotografico. Come naturale conseguenza in quello successivo ho voluto lavorare sulla mia storia familiare dal punto di vista di mia madre. Non conosco l’identità di mio padre perché mia madre faceva parte di una setta americana abbastanza fondamentalista che si chiamava I bambini di Dio (fondata nel 1968 in California da David Berg, alias Moses David o Father David, The Children of God si è diffusa in tutto il mondo, cadendo in discredito per aver praticato la prostituzione religiosa evangelistica o «flirty fishing», nonché violenze e abusi su minori – ndr), un culto che faceva parte dei movimenti Hippie e New Age. In mostra da una parte c’è l’archivio del culto contrapposto al mio archivio familiare. Per diversi anni ho portato avanti la ricerca raccogliendo testi, lettere, documenti e fotografie di altri membri della setta, perché quando la mia famiglia ne è uscita avevo solo quattro anni e non ho ricordi. È un argomento che in casa non abbiamo più affrontato. Ho sempre rispettato la volontà di mia madre di non parlarne, però ho deciso di farlo da artista perché penso che sia una tematica importante da elaborare non solo per noi, ma per le altre donne che hanno subito dei traumi dalla società patriarcale che nel caso di The Children of God lo è in modo molto estremo. Infatti il corpo della donna viene inteso come il corpo di dio e l’amore di dio come amore libero. Le donne erano, a tutti gli effetti, prostitute in nome di dio. Questo culto, successivamente, ha avuto varie indagini da parte dell’Interpol e sebbene oggi esista ancora – ha cambiato il nome in The Family International – non può più praticare come prima. Le persone che facevano parte di questo culto hanno subito dei danni con conseguenze psicologiche molto gravi anche nel riadattarsi al mondo esterno. La setta era una comune che viaggiava in autostop. Chi ne faceva parte non aveva soldi – non potevano tenerli – quindi le donne davano il loro corpo in cambio di un’offerta. Occult per me ha una valenza molto femminista nell’indagare il corpo della donna, il modo in cui viene strumentalizzato e anche su quanto sia radicata la nozione per cui il corpo non è nostro ma sempre di qualcun altro: di un uomo, di un dio, di un figlio.

In questa ricerca in cui ripercorri la storia di tua madre quali sono state le tappe del viaggio?
Mia madre ha vissuto in India, Thailandia e Nepal. Lo scorso anno, prima che scoppiasse la pandemia, ho ripercorso il suo viaggio andando in tutte le città in cui ha vissuto prima che nascessi. Sono stata a Delhi e da lì a Varanasi, Goa e Bombay fino a Katmandu, in Nepal e infine in Thailandia, a Bangkok dove sono nata e nelle isole Koh Phangan e Koh Samui. In realtà il mio sguardo era rivolto agli occidentali che ancora oggi arrivano nei paesi esotici in cerca di una forma di spiritualità, tantra, yoga, energia, Yoni massage o massaggio della vagina e sexual awakening.

Nella serie fotografica giochi sul cliché del paesaggio esotico con il tramonto e le palme senza che ci sia un’identificazione specifica del luogo…
È proprio il ritratto degli occidentali che vanno nei luoghi esotici. Ci sono tantissimi cliché perché secondo me si tratta ancora oggi di una forma di colonialismo. Persone che hanno perso qualcosa e cercano una risposta in quei luoghi esotici praticando un’altra forma di spiritualità che non appartiene al luogo. Il contrasto è molto forte perché si crea un nucleo di occidentali in cui non c’è integrazione con la gente del posto. Non faccio reportage, né fotogiornalismo, l’occhio è più legato al concetto del progetto.

Quali sono state le tue emozioni di viaggiatrice?
Emozioni fortissime. Non era il viaggio vacanza, pensavo solamente a come poteva essersi sentita mia madre in quei luoghi e a come erano cambiati in questi trent’anni. Ho sempre portato mia madre con me. Ci sentivamo telefonicamente, lei sapeva dove ero e cosa facevo. A Katmandu mi chiese se ero andata a vedere le montagne dell’Himalaya. «E tu le hai viste quando eri qui?». «No» – mi rispose – «non potevo vederle perché ero chiusa nella villa della setta». Quando sono andata lassù a fotografare l’Himalaya, quelle montagne hanno avuto un’importanza enorme per me quasi di rivincita e riscatto perché avevo potuto viaggiare come donna sola, libera e privilegiata anche se mi portavo sempre dietro la storia di mia madre. Un viaggio importante che sto ancora facendo, perché il progetto non è ancora finito.

È anche una riflessione sull’uso del mezzo fotografico…
La fotografia, in un certo senso, mi dà quella forma di distanza emotiva, protezione e lucidità nell’affrontare questo argomento, sia nella ricerca d’archivio del culto che nel mio archivio familiare, nonché nel viaggio che ho fatto nelle città dove mia madre ha vissuto.

È stato difficile trovare informazioni sulla setta?
Non è stato difficile trovare informazioni sulla setta perché molti ex membri hanno sentito il bisogno di condividere la loro esperienza attraverso articoli e fotografie anche per aiutare altre persone che erano nella loro stessa situazione. Ho creato il «muro della propaganda» con uno screenshot del sito web, una ricerca che ho fatto online con una quantità enorme di informazioni.

Nelle foto di famiglia ci sono delle figure che sono stata eliminate dall’immagine…
Questo intervento l’ha fatto mia madre, io ho solo fatto un lavoro di editing e catalogazione. È molto interessante perché lei reinterpreta l’album di famiglia. Si è domandata molte volte come sarebbe stata la sua vita se mia nonna Rosa non l’avesse portata all’interno di questa setta, quindi è intervenuta sull’album di famiglia tagliandola fuori dalla memoria. Mia nonna, che oggi è celebrante di matrimoni a Positano, si era innamorata di una persona che era all’interno della setta e nel 1980 decise di fare la scelta radicale di portare sua figlia, lasciando gli altri due a Trieste, per seguire il culto. Da un certo punto di vista potrebbe rappresentare una donna che non vuole stare all’interno dei meccanismi del matrimonio felice per seguire la libertà. Però ovviamente c’è un prezzo. Mia madre non ha avuto scelta: aveva 13 anni. Questo progetto riflette anche su come si può manipolare una storia nel raccontarla. Per esempio nel mio album di famiglia quasi tutte le immagini sono state scattate dopo che siamo usciti dalla setta. La storia che mia nonna ha voluto raccontare, perché c’è lei dietro tutte quelle immagini, è che eravamo felici. Come in tutte le immagini d’archivio di famiglia, i compleanni sono sempre momenti belli. L’intenzione è anche quella della manipolazione della memoria, del passato. Anche per me l’immagine non è mai un documento puro.

Aba Zari, Awakening in Zen Beach. Koh Phangan, Thailand, 2020, 2021 (Courtesy l’artista).

 

Archive of the Children of God, 2020 (Courtesy Alba Zari)