A 88 anni, Alain Cavalier non si separa quasi mai dalla sua videocamera che tiene in un sacchetto di stoffa. Filmare ciò che lo colpisce giorno per giorno è il suo modo di tenere un diario che è anche il suo stile di cinema. Niente attori, niente sceneggiatura, niente equipe, niente colonna sonora, niente luci artificiali, niente grandi finanziamenti, la cinematografia di Cavalier nasce dalla scelta di divorziare dalla costosa industria del cinema che in passato ha frequentato (La chamade con Catherine Deneuve, Le combat dans l’île con Romy Schneider e Jean-Louis Trintignant, Il ribelle di Algeri con Alain Delon e Lea Massari), per restituire allo spettatore sguardi non inquinati. Il festival Filmmaker di Milano, in corso fino al 24 novembre, gli ha dedicato una sezione in cui Cavalier ha presentato quattro suoi film: il recente Etre vivant e le savoir, Irène (2009), La rencontre (1996), Martin et Léa (1979). La linea che unisce questi lavori corteggia, con sottile provocazione, il tema della morte.
«In realtà – ci dice Cavalier mentre inzuppa dei biscotti in un caffè doppio – sono film che parlano di storie d’amore, e la morte e l’amore si incrociano sempre. In tre casi ci sono incontri di corpi, mentre Etre vivant e le savoir racconta un legame intellettuale fra me ed Emmanuèle Bernheim. Dovevamo girare un film tratto dal suo romanzo autobiografico Tout est bien passé in cui narra di come ha accompagnato il padre nella scelta di morire. Lei doveva interpretare se stessa, io suo padre. A metà del lavoro si è ammalata di cancro. Per diciotto mesi abbiamo sospeso il lavoro aspettando la sua guarigione, ma poi Emmanuèle è morta. A quel punto pure quel film era morto ed è diventato qualcos’altro, il racconto di una cara amica che se ne va. Non è il diario della sua vita, ma il mio diario che prende forma dopo una lunga digestione. Filmo, riguardo, cancello e nasce una foresta.

Nel film lei non mostra la fine di Emmanuèle. C’è un’intimità della morte al di là della quale non si deve andare?

Non ci deve essere nessuna ambiguità quando ci si avvicina a certi momenti. L’ultima volta che sono andato a trovarla in ospedale non ho portato con me la videocamera perché sapevo che, se l’avessi avuta, sarei stato tentato di usarla e che lei me lo avrebbe permesso. In quel momento non volevo conservare per me stesso un documento sul suo indebolimento. D’altra parte, se si pensa ai momenti della nostra giornata, quanti ne lasceremmo filmare? Pensiamo al sesso. Nel cinema non c’è una sola scena che riprende la verità dei rapporti sessuali. Si vedono baci, abbracci, corpi stesi, ma sono finzioni. Mancano le emozioni fisiche, la sensualità. Il cinema ingombra l’immaginario dei giovani con morti non stop, peni enormi che entrano nelle donne, poi nell’intimità si devono arrangiare. Ah, poveretti.

In «Etre vivant et le savoir» c’è una scena in cui lei fa le prove della sua morte e poi, quando esce da quella dimensione, grida: «Vive la République et vive les patatines frites». Da dove le è venuta una frase così?

I miei esercizi di scomparsa sono un percorso curioso, si tratta di fare il vuoto dentro se stessi finché volti e oggetti scompaiono e ci si trova in un luogo che non esiste più. Quella frase non l’ho pensata coscientemente, è sbucata dalla memoria. A mia madre piaceva bere, soprattutto whisky, e succedeva che all’improvviso si alzava gridando: «Vive la République et vive les pommes de terre frites». Tutto ciò per me coincide con un momento di felicità.

Su sua moglie Irène Tunc, morta in un incidente stradale nel 1972, lei ha realizzato due film, «Ce répondeur ne prend pas de message» del ’78 e «Irène» del 2009. Perché è tornato a girare su di lei quasi 40 anni dopo la sua scomparsa?

Irène è sempre stata presente, entrava, usciva, mi diceva delle cose e sentivo la necessità di raccontarla. D’altra parte, quando morì stavo per iniziare un film su di lei che ovviamente saltò, un po’ come per Etre vivant et le savoir, quindi si può dire che sono vedovo di due film causa morte delle due protagoniste. Il grande problema di realizzare un film su qualcuno che è scomparso è se mostrare o no il suo viso. In Irène la soluzione me l’ha data una sua foto scattata quando aveva 15 anni. Aveva appena vinto il titolo di Miss Costa Azzurra ed è vestita di bianco, davanti ai suoi genitori e ai suoi nonni paterni. Quella foto lascia intuire l’origine dei suoi problemi, un rapporto complesso e conflittuale con il padre e la madre, il desiderio di fuga dalla sua città, Lione, l’aborto che fece in quegli anni e che la rese sterile. Partendo da quell’immagine ho inserito poche foto sue scattate da me. Il resto è un racconto di lei e del nostro rapporto attraverso i miei diari e gli spazi che abbiamo abitato.

La stessa scelta di non mostrare i visi lei la fa anche in «La rencontre» nel quale racconta la relazione con Francoise Widhoff.

Perché se si mostrano corpo e viso a pezzi, come nel film in cui si vedono la bocca, le orecchie, le mani, la schiena, si lascia allo spettatore la libertà di immaginarli.

Anche per questo lei non lavora più con gli attori?

Gli attori al cinema sono una catastrofe, sono dei quadri filmati. Solo in teatro c’è un gioco onesto perché lì l’attore si espone creando un rapporto carnale con lo spettatore. Il cinema rende tutto facile, può replicare amore e morte in migliaia di esemplari, guadagnare quantità enormi di denaro, riunire folle di spettatori e questo ne fa una specie di fiera. Certo, si vedono corpi magnifici che fanno pensare all’amore, eroi belli e coraggiosi che incoraggiano a trovare la natura umana non troppo immonda o repellente. Tutto ciò ha una funzione, ma il problema è che la gente ci crede. Ho visto un pezzo di Joker. È l’arte americana della morte fastosa, contiene tutte le convenzioni del cinema. Anch’io in passato ho usato gli attori come utensili, ma poco a poco mi sono trovato in un sistema ingabbiante che deve tener conto della fama dell’attore, del suo universo nerboruto, accompagnato da mille esigenze e da tanto, troppo denaro.