Sono stati più di due milioni duecentomila i catalani che hanno creduto nel “processo partecipativo” di domenica e che si sono espressi su una possibile indipendenza della Catalogna dalla Spagna. Secondo i calcoli informali, rispetto ai circa sei milioni di cittadini con più di 16 anni (compresi 900mila stranieri) chiamati alle urne, si tratta di più di un terzo. I calcoli sono informali perché, poiché la consultazione ufficiale è stata bloccata due volte dal Tribunale Costituzionale su richiesta del governo di Madrid, quella di domenica era solo un “processo partecipativo” portato a termine in “locali di partecipazione” messi a disposizione dai comuni volontariamente e con seggi elettorali costituiti da cittadini volontari – più di 40mila.

In cifre assolute, il numero di quelli che ieri hanno deciso di prendere parte a questa consultazione “informale” è confrontabile con i 2 milioni 100mila voti ricevuti alle ultime elezioni del 2012 dai 4 partiti che hanno appoggiato il “diritto a decidere”: i democristiani di Convergència i Unió, che Mas presiede, gli indipendentisti di sinistra di Esquerra Republicana, i rosso-verdi di ICV e il movimento anticapitalista della CUP.

Elezioni a cui avevano votato solo 3 milioni settecentomila persone. Un altro confronto interessante è con il 2006, quando si celebrò un altro referendum, quello per l’approvazione del nuovo Statuto catalano che lasciava più margini di manovra alla Catalogna e contro cui successivamente il Partito popolare aveva lanciato un attacco frontale, culminato in una dura sentenza del Tribunale Costituzionale del 2010. Una sentenza da cui è nata la frustrazione che ha portato progressivamente alla votazione di domenica. In quel referendum votarono 2 milioni seicentomila persone.

Questi dati disegnano un quadro sfaccettato. Da un lato, Artur Mas ha avuto la foto che voleva, sorridente, mentre introduce il suo voto nell’urna. Un risultato che fino a un paio di anni fa neppure gli indipendentisti più ottimisti sognavano. Un processo non ufficiale – il governo di Madrid si è rifiutato di far celebrare un vero referendum e ha impugnato la legge per le consultazioni cittadine non vincolanti che aveva approvato a grande maggioranza il Parlament di Barcellona – che è comunque riuscito a portare alle urne più di due milioni di persone (in attesa degli ultimi voti di chi non era a Barcellona domenica e che potrà votare ancora per 15 giorni in appositi seggi) e che è certamente un “successo totale”, come si è affrettato a dire Mas. Ma, numeri alla mano, nonostante la ilusión dei volontari e degli organizzatori, non sembra che l’indipendentismo catalano sia cresciuto significativamente, mantendendosi sui numeri assoluti che da sempre gli si attribuiscono – circa un terzo. Tra l’altro, solo l’80% dei votanti ha votato un doppio sì: alla volontà che la Catalogna sia uno stato, e che sia indipendente. Circa il 10% ha votato Sì allo stato ma No all’indipendenza, e sorprendentemente, quasi il 5% ha votato No. Di fatto, forse il maggiore successo di tutto questo processo sta in questi numeri: non solo aver mobilitato di questi tempi due milioni di persone che si sono messe in lunghe code per poter dire la loro, ma che persino alcuni fra quelli che non condividono la deriva monotematica filoindipendentista abbia deciso di esprimere la sua.

Per quanto la posizione del governo di Madrid sia che si è trattato di “un atto di pura propaganda privo di qualsiasi effetto giuridico” è chiaro che oggi Artur Mas è più forte. Anche chi cercava di mettere in dubbio il controllo dell’identità dei votanti – che in assenza di liste elettorali ufficiali, bloccate dal ricorso del Pp, era affidato alla precisione dei volontari nel controllo dei documenti – ha dovuto ammettere che il processo è stato scrupoloso. El país domenica ha cercato di far ripetere il voto ad alcune persone, e non ci è riuscito. Non ci sono neppure stati incidenti degni di rilievo. Durante la giornata di domenica era rimbalzata la notizia che alcuni partiti, fra cui UPyD – un partito centralista senza rappresentanza in Catalogna guidato da Rosa Díaz – aveva chiesto alla giustizia di mandare la polizia a sequestrare le urne e chiudere i seggi. Ma persino il giudice di guardia a Barcellona aveva deciso di non intervenire definendo la misura come “sproporzionata”.

Cosa succede ora? Mentre da Madrid, il Psoe, contrario sia al referendum che alla consulta, per bocca del suo segretario Pedro Sánchez, dice che la Catalogna ha reso la riforma costituzionale “urgente”, Mas chiede al governo di negoziare, e promette che questo è solo il primo round che si dovrà chiudere con un referendum reale. Esquerra e uno dei due soci di CiU chiede elezioni plebiscitarie (cioè monotematicamente centrate sul referendum) se entro due settimane non si trova un accordo del governo centrale. Mas potrebbe sciogliere anticipatamente il Parlament di Barcellona per la seconda volta in due anni. E ricominciare la partita a poker, stavolta con equilibri diversi, a Barcellona, ma presto forse anche a Madrid.