La campagna per le politiche anticipate del prossimo 12 dicembre è ufficialmente partita ieri dopo esserlo stata ufficiosamente da settimane, se non da mesi. Premier da novanta giorni – ieri usciva dalla porta girevole di Downing Street senza sapere se vi farà ritorno – e già ex, quello di Boris Johnson non poteva essere debutto elettorale meno propizio. Bersagliato da una pioggia di tegole mediatiche, ieri è andato dalla sovrana come vuole la consuetudine dello scioglimento del parlamento. Non gli ha giovato il reperto vittoriano Jacob Rees-Mogg, che con il suo accento degno di Downton Abbey aveva appena sostenuto alla radio che lui, al posto delle vittime del rogo di Grenfell Tower, avrebbe avuto il “buonsenso” di ignorare il consiglio dei vigili del fuoco di restare sul posto: poveri e stupidi, insomma.

E ieri, con un discorso davanti al numero dieci prima di lanciare la campagna dei Tories, “Boris” cercava di metterci una pezza. Promettendo una Brexit categoricamente realizzata entro fine gennaio (terza posticipazione della famigerata scadenza) che solo il suo «moderno e compassionevole» partito è in grado di realizzare, prima di sommergere il Paese in un diluvio di spesa pubblica (sì, è il leader di quegli stessi conservatori al potere da un decennio che hanno pauperizzato le fasce già deboli della popolazione con dei tagli degni del più spietato vandalismo sociale, obbligandole a nutrirsi ai banchi alimentari).

È un’elezione, questa, che Johnson non voleva e che è cominciata male, con Nigel Farage che gli soffia sul collo: vuole che i Tories mollino l’accordo di uscita, pena l’aizzargli contro i propri nei collegi più in bilico. Johnson ha finora escluso un’alleanza con il ghigno in tweed e insiste che un voto per Corbyn sarebbe un voto anticapitalista e per altri due referendum: quello su Brexit e un altro sull’indipendenza scozzese (in teoria Nicola Sturgeon potrebbe sostenerlo in cambio di un via libera in questo senso).

Asciugatosi le mani del sangue dei kulaki, Corbyn è invece partito alla grande. Il suo programma è finalmente privo dei democristiani compromessi su cui il Labour aveva costruito il predominio blairista, forte del patto scellerato con l’anarcofinanza della City. Per la prima volta dai tempi di Neil Kinnock, quanto a politica economica, il Labour non si confonde con i Tories. Questo è un programma socialista, lo abbiamo visto, e il manifesto del 2019 – ancora in corso di scrittura – lo rifletterà ampiamente: con un ambizioso programma redistributivo, fiscale, di nazionalizzazioni. Fine dei banchi alimentari, delle tasse universitarie da oligarchi, dei contratti a zero ore, della povertà occupazionale. E una rivoluzione industriale verde contro il problema numero uno dei nostri tempi, il surriscaldamento climatico.

«Questa è un’occasione unica in una generazione per trasformare questo paese» ha detto Corbyn, ed è vero. Un programma così a sinistra non si è mai visto nella storia del tremebondo e corporativo partito laburista.

Per questo Johnson ha dovuto buttare precipitosamente a mare il decennio di austerity inflitto dai suoi al paese, riesumando di malavoglia il One Nation Conservatism di Disraeli e posando a grande difensore della sanità e della spesa pubbliche, pur continuando naturalmente a martellare su Brexit. Come del resto fanno i Libdem di Swinson, che promettono una revoca dell’articolo 50 dimentichi del fatto che, al momento, sembrerebbe ardita anche in un romanzo di Asimov.

Corbyn spinge queste misure epocali, anche se non dimentica certo la bestia Brexit, come non la dimenticano, pur nello sfinimento, gli elettori. Secondo il leader, il Labour al potere rinegozierebbe un accordo di uscita con Bruxelles in sei mesi, per poi metterlo ai voti in un referendum, aprendo così la porta agli eurolatri. Pur mantenendosi nel vago quanto alla posizione ufficiale – se favorevole o contraria all’uscita – del partito in detto referendum.