Due sono gli oggetti principali che muovono la forbita narrazione di Stefano Costa: la malattia e la battaglia. Oltre ogni pensiero sulla fine del mondo, sulla possibile e imminente catastrofe ambientale, l’autore sceglie il piano dell’intimità per svelare il lato oscuro di una vita resistente. Ridotta ai minimi termini, rivela la propria funzione apotropaica nei confronti di una morte che è sempre ovviamente inevitabile ma che, nel caso di una malattia terminale, prende una forma in vita precisa o quantomeno visibile seppure inevitabilmente falsa e illusoria.

RESISTERE dunque come azione viva, vivissima di ribellione: tanto per iniziare a sé stesso, questa la condizione del protagonista Driano, ormai l’ombra dell’uomo che fu un tempo o che immagina di essere stato.
E ancora resistere per dare un colpo all’umanità tutta, una lezione assoluta che tramuti la pulsione quotidiana in quello sterminio rimandato che sembrano essere i giorni e gli anni di un mondo più infestato che abitato. Il tramite per compiere questo gesto terminale, quanto iniziatico, non può che essere una talpa quale rappresentante di un mondo animale chiamato alla rivolta sull’uomo.
Quella che disegna pagina dopo pagina Stefano Costa in Il primo giorno d’autunno al mondo (Il Saggiatore, pp. 334, euro 20) è una campagna macilenta in cui il rigoglio vegetale è per l’uomo il segno nefasto di una fine in perenne annuncio. Lo stesso concetto di campagna assume la forma di un’ipotetica fine città in stato di abbandono. Un luogo deforme e incapace di offrire ricovero sia urbano quanto naturale. Ogni movimento nel romanzo in delicato equilibrio tra epica e fiaba assume i toni del dolore fisico, la malattia come motore dell’impresa, fuoco e furore di uno sterminio che si muove tra i silenzi alternati ai lamenti.
Ambientato nell’Oltrepo Pavese, il libro nel suo perfetto alternarsi di luce e buio, quasi in maniera metallica, sembra essere debitore di quella misteriosa e cupa scenografia tipica del gotico piemontese che vive per l’appunto al suo meglio nel confine, un gotico romanico che apre alle vetrate, ma non libera la luce. Una struttura decorativa più che costruttiva come in un certo senso va ad agire il romanzo sulle sue pareti non dimenticando mai la forma fiabesca che fa dei suoi protagonisti elementi icastici della narrazione.

UN MOVIMENTO lento fatto di improvvise e a tratti casuali accelerazioni, l’incedere verso la fine che si tramuta in movimento in favore della battaglia vista attraverso la lucentezza della tragedia: scovare la luce dove pare non essercene più e al tempo stesso vedere la morte come fosse in vita.
La malattia assume in questo modo non più la forma di una condanna, oggetto principe dell’esclusione sociale, ma all’opposto la malattia come generatore di una forma sia nichilista sia primordiale di vitalità. La malattia come evoluzione rapida e ultima di un corpo che si prepara alla morte non come ad un superamento, ma come un cambiamento di stato radicale.
Stefano Costa disegna al suo esordio un’efficace oggetto letterario, originale e in parte seduttivo, anche se più volte corre il rischio di restare impigliato in un discorso freddo e rigido a causa di una lingua che sembra giocare più con l’autore che con il lettore.
Tuttavia proprio perché corre questi rischi Il primo giorno d’autunno al mondo offre un viaggio e una riflessione sul fare letteratura oggi mai banale e tantomeno scontata.