Che cos’è la storia di un partito? Soprattutto di un partito fortemente radicato nella vita nazionale? Cosa vuol dire scrivere la storia di un determinato partito? Gramsci avrebbe risposto che «scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico, per porne in risalto un aspetto caratteristico».

Proprio prendendo spunto dalla definizione gramsciana (sapientemente fatta propria dal curatore del volume Lorenzo Capitani) viene ricostruita la storia del Pci di Reggio Emilia, con una monografia che ha al centro un oggetto che è sintesi di quella storia, cioè un tavolo ottagonale di legno chiaro (La storia sul tavolo. Tra due epoche del Novecento, cronache, memorie, riflessioni sul Pci di Reggio Emilia, Fondazione Reggio Tricolore, a cura di L. Capitani, pp. 147, euro 15).

Il tavolo, progettato nel 1930 e costruito da una cooperativa composta per la maggioranza da artigiani socialisti e comunisti, fu destinato a fare bella mostra di sé all’interno della federazione fascista di Reggio Emilia in segno della concordia ritrovata fra i «camerati» locali. Lì, nella sede del Fascio reggiano in via Cairoli rimase fin quando, nel 1945, i partigiani occuparono l’edificio e fu stabilita la sede del Pci. Come dire, una sorta di preda di guerra (come lo definiva l’Unità del 2 dicembre del 2007) che, da quel momento, osservò gli sviluppi della storia del Pci reggiano.

NEL 1954 il tavolo venne trasferito a Palazzo Masdoni in via Toschi, scelta come nuova sede del Pci; lì trovò una collocazione di vero prestigio: nel luogo dove si prendevano le decisioni, ossia la sala della Segreteria provinciale. È facile immaginare chi si sia seduto intorno al tavolo, chi abbia poggiato i gomiti e i fogli degli appunti su di esso, chi magari, in un attimo di stanchezza durante le lunghe ed estenuanti riunioni tipiche della tradizione democratica comunista italiana, abbia, per un attimo, posato il capo sulla superficie lignea: vengono in mente Togliatti e Berlinguer. Quando ci fu lo scioglimento del Pci, il tavolo finì dapprima in un magazzino della Caritas, poi sul mercato antiquario dove l’imprenditore Mauro Bassinghi lo acquistò «in quanto lo consideravo un gesto di riconoscimento per una storia a cui mi sento molto legato – spiega a Lorenzo Capitani – quella di un grande partito in cui mi sono riconosciuto pienamente, pur con le mie personalissime idee».

Fin qui la storia del tavolo; ma perché la storia sul tavolo? La composizione del volume già offre delle risposte: una sezione di testimonianze e una fotografica (da segnalare la foto del tavolo che si presenta in tutta la sua corpulenta estensione e le due foto, di grande impatto emotivo, di Papà Cervi in picchetto d’onore davanti all’immagine di Togliatti appena scomparso e quella del discorso di Berlinguer alla Festa dell’Unità del 1983, la sua ultima Festa), una presentazione di Dumas Iori (Fondazione Tricolore Reggio Emilia), un’introduzione a due voci (Bassinghi e Capitani), un corpo centrale di quattro saggi (Marchesini, Capitani, Franzoni, Zamboni).

MA LA RISPOSTA decisiva la fornisce Capitani rispondendo a un’altra domanda: «Se quel tavolo potesse parlare?» In sintesi «la nobiltà di voler fare la storia, la miseria di volerla sempre piegare alle proprie interessate letture». Quindi la contraddizione, forse quella stessa scandalosamente presente in Pasolini davanti all’urna di Gramsci: «essere/ con te e contro te; con te nel cuore,/ in luce, contro te nelle buie viscere». Eppure questa contraddizione sembra sciogliersi un anno prima della morte del poeta nella famosa definizione del Pci come paese «pulito, onesto, intelligente, colto, umanistico» in un paese «sporco, disonesto, idiota, ignorante, consumistico».

L’ELEGANTE VOLUME curato da Capitani si inserisce con indubbia originalità nel contesto delle pubblicazioni con cui verrà ricordato, il prossimo anno, il centesimo anniversario della fondazione del Pci; e il tavolo ottagonale, solido e resistente alle repliche della storia, sarà lì a fare memoria di una settantennale storia nel corso della quale la nobiltà della difesa dei subalterni ha di gran lunga superato la miseria dell’aspirazione al potere per il potere.