È «un fatto gravissimo», per Matteo Orfini, una questione «deplorevole» per Lorenzo Guerini che in tarda serata salgono al secondo piano di Palazzo Chigi per un vertice con il premier Gentiloni.

La tensione già alta fra Pd e governo, dopo il «franco confronto» con il ministro Padoan mercoledì scorso, ieri ha un’impennata. L’«incidente» accade nel primo pomeriggio alla commissione affari costituzionali del Senato dove si vota per il presidente. Ruolo delicato: dovrà gestire tutta la partita della legge elettorale. Da mesi Renzi lamenta «la palude» al senato, ma è chiaro che prima della fine delle primarie la partita neanche inizia.

In commissione a voto segreto il candidato della maggioranza Giorgio Pagliari, che sulla carta ha i voti, si ferma a 11. Passa quello delle opposizioni, l’alfaniano Salvatore Torrisi, che fin qui aveva provvisoriamente sostituito Anna Finocchiaro, diventata ministra ormai quattro mesi fa. In teoria le opposizioni hanno solo dieci voti. Torrisi ne prende ben 16. È un colpo di scena? In realtà è ampiamente annunciato. Il capogruppo Pd Zanda sa che in commissione la maggioranza balla, soprattutto se il Pd si impunta su nomi inpotabili: il primo fu Roberto Cociancich, il senatore che propose il primo «canguro» sulla riforma costituzionale, poi presidente dei comitati del Sì. Anche stavolta c’è chi spiega a Renzi che Pagliari non ce la fa: ma arriva l’ordine di andare avanti.

A un minuto dal «fattaccio» il Pd scatena la guerra termonucleare: la colpa viene rovesciata sui centristi di Alfano. Il Pd fa sul serio: dal Nazareno si fa sapere che verrà chiesto un incontro al Quirinale. Il reggente Orfini va giù duro: «Gentiloni è il nostro presidente del consiglio. Con lui vogliamo confrontarci sulla maggioranza di governo». Intanto il ministro degli Esteri, a Bruxelles per lavoro, che il giorno prima fingeva di fare la voce grossa con il premier, trasecola e lo cerca al telefono. I due concordano di chiedere le dimissioni di Torrisi. Ma Torrisi sembra un novello caso Villari. In serata si sparge la voce che pur di non far saltare il governo Alfano lo espellerà da Ap.

Ma al Pd le dimissioni del neopresidente non bastano. Torrisi è un proprozionalista. Dal Nazareno si fa sapere che Renzi è arrabbiatissimo e che la vicenda è la pistola fumante dell’intenzione del senato di fare una legge elettorale proporzionale. Dal Pd si alza il polverone. La senatrice Puglisi attacca gli scissionisti: «Mdp era talmente contraria al Patto del Nazareno che in Senato hanno votato il candidato di Alfano, a braccetto con Berlusconi e Grillo». I renzianissimi Marcucci e Mirabelli insistono: «Bersani oggi ha dato seguito alle sue continue minacce alla maggioranza». Il senatore Mpd Miguel Gotor risponde piombo su piombo: «La matematica non è un’opinione. I numeri dicono che al candidato del Pd sono mancati sei voti. Il Pd guardi a casa sua e al gioco delle correnti sotto congresso». Ma il candidato Andrea Orlando allontana da sé i sospetti: «Il vulnus politico va sanato rapidamente».

Ma i conti non tornano davvero. E Zanda alza i toni per allontanare l’accusa di una cattiva gestione della vicenda: «Siamo abituati all’uso del voto segreto per manovre politiche sempre più volgari e ipocrite. Questa volta si è superato il limite», le opposizioni «a voto palese litigano e si insultano, a voto segreto si muovono insieme. Oggi a questo inedito nuovo fronte si sono aggiunti, lo dicono i numeri, pezzi di maggioranza. Certo non del Pd».

Eppure il sospetto che l’incidente sia stato cercato resiste. In Transatlantico c’è chi parla di «attentato di Sarajevo», lo sparo all’arciduca Francesco Ferdinando che diventa il casus belli della guerra mondiale. L’apposito incidente per dimostrare che la maggioranza «non c’è più» e che è meglio andare al voto subito. Del resto dalla prima vittoria di Renzi nei circoli ha ricominciato a spirare il venticello del voto anticipato.

Ma non c’è la legge elettorale, e soprattutto non ci sono i tempi. Per votare a fine giugno magari insieme al ballottaggio delle comunali (di voti a luglio non ci sono precedenti) bisognerebbe sciogliere le camere i primi di maggio, persino prima della proclamazione del nuovo – vecchio – segretario Pd. Ma ai piani alti del Nazareno qualcuno ci crede ancora: meglio sfruttare l’onda del successo delle primarie, che inevitabilmente verrebbe dispersa da nove mesi di tormentato governo Gentiloni e da una manovra che non aumenterà la popolarità del Pd. Il presidente del senato Grasso si congratula con il neopresidente e butta acqua sul fuoco: è «la classica tempesta in un bicchier d’acqua. Evidentemente nei mesi in cui Torrisi ha svolto il ruolo di presidente è stato apprezzato anche dalle opposizioni». Anche, appunto.

Dal Quirinale si fa sapere che nessuna richiesta formale del Pd è arrivata. Ma che, come già detto da Mattarella, le leggi elettorali di camera e senato dovranno essere omogenee. Senza due modifiche minime (voto di genere e soglie) il ricorso alle urne non è un’ipotesi percorribile prima della scadenza della legislatura.