Ovo foto di Paul Verhagen

Il Roadburn ha «occupato» anche quest’anno la cittadina di Tilburg, nei pressi di Eindhoven, con la calorosa partecipazione e il fragore di quello che si autodefinisce «Europe’s leading underground festival for heavy music». Qualche difficoltà invero stavolta c’è stata, e il fondatore Walter Hoeijmakers non l’ha nascosto. L’attività delle band è ancora fragile e precaria dopo i colpi inferti dalla pandemia, sono molti i gruppi, soprattutto oltreoceano, ad essere andati in perdita lo scorso anno con i tour europei, e la decisione quindi di prendersi un anno di stop non è isolata. Circostanze che hanno spinto il Roadburn a ricercare ancora di più nell’alveo dell’underground, scommettendo talvolta su musicisti ancora poco noti anche agli appassionati di musica «pesante», definizione già larga che il festival da anni ha scelto di indagare in tutte le possibili sfaccettature.
Questo atteggiamento così «aperto», insieme alla mancanza di grandi headliner, ha suscitato qualche mal di pancia tra gli affezionati della prima ora. E se da un lato è proprio questo spirito che permette al festival di attrarre un pubblico di tipo diverso e di continuare ad essere uno spazio di ricerca, e pur vero che questa edizione è la prima a non essere sold out da 18 anni a questa parte. C’è da aggiungere che i prezzi dell’Olanda non lasciano scampo – quest’anno anche il clima – e per un festival che ha sempre attratto la maggior parte dei suoi partecipanti dall’estero, è un altro elemento non da poco. Ma tutto ciò è stato poi superato dall’esperienza concreta, il Roadburn infatti è stato anche stavolta una festa, con uno spirito di comunità molto sentito e oltre 90 band ad esibirsi su sei palchi dal 20 al 23 aprile.

Backxwash foto di Peter Troest

TRA I PRIMI a suonare i ravennati OvO, Bruno Dorella e Stefania Pedretti danno il massimo sul palco e finiscono il live virandolo nella direzione del rituale, addentrandosi nelle sfumature doom del loro repertorio abrasivo. La performance più incendiaria e sorprendente è quella di Backxwash, rapper nata in Zambia e trasferitasi in Canada durante l’adolescenza. Alla sua prima esibizione europea, Backxwash porta sul palco tutta l’energia di una «angry trans woman», la sua ultima trilogia di dischi affonda con intento catartico nel grande dolore vissuto, le rime si scagliano contro l’asfissiante ortodossia cristiana che ha caratterizzato la giovinezza, ma del Paese natio recupera invece la lingua, le danze, la spiritualità tribale. Atti di accusa e di liberazione che si fondano con sonorità industrial, oscure e martellanti, dove con campionamenti, dove con una chitarra in ausilio. Backxwash si esibisce in due set, un’eventualità non rara per i gruppi su cui il festival «punta». Avviene lo stesso infatti con i Deafheaven da San Francisco, che in un primo concerto eseguono il disco di dieci anni fa che li ha resi noti, Sunbather, mentre nel secondo si sono concentrati sull’ultimo lavoro Infinite Granite, che segna una svolta forte in direzione shoegaze-dreampop, con un deciso «ammorbidimento» rispetto agli intenti iniziali.
Ad esibirsi addirittura tre volte sono invece i due artisti in residenza, che quest’anno evidenziano proprio l’allargamento del perimetro del festival sulla base di intuizioni felici e ragionate. Gli Oiseaux-Tempête e i Sangre de Muerdago, rispettivamente da Parigi e dalla Galizia, sono certo molto distanti dall’immaginario metal ma meriterebbero in generale più esposizione per le loro qualità. Gli Oiseaux-Tempête ripercorrono la loro carriera con concerti di grande intensità, dove da trio dedito ad un progressive post-rock si sono aperti sempre più all’influenza di altri musicisti. Jerusalem In My Heart, con le sue origini libanesi, ha portato all’interno del gruppo una ventata mediorientale mentre G.W. Sok, storico cantante dei The Ex, scrive e intona liriche che cercano di cogliere la semplicità e la difficoltà dell’essere al mondo.

Oiseaux-Tempête foto di William Lacalmontie

I SANGRE DE MUERDAGO danno vita invece ad una dimensione intima sul palco, il cantautore Pablo Camiña Ursusson introduce ogni brano ripercorrendone la genesi, sempre legata ad una fase di vita o ad un evento personale, tra dolore e desiderio di un mondo più rispettoso, autentico e vivibile. La loro musica recupera molti elementi da quella tradizionale della Galizia, e il folk è un territorio esplorato da più gruppi in quest’edizione.
In un resoconto che è necessariamente parziale, visto il sovrapporsi di molti concerti e la continua necessità di scegliere a cosa dedicarsi, altre formazioni che si sono fatte notare sono i giapponesi Bo Ningen, imprevedibili e trascinanti tra prog, noise e grande spirito performativo; i brasiliani Deafkids, che mescolano sapientemente tamburi, elettronica e chitarre, accogliendo risonanze psichedeliche senza epoca di riferimento; la cantautrice americana Circuit des Yeux, teatrale e incasellabile, dedita ad una grande ricerca vocale; i francesi France, che con la loro ossessiva ripetizione fanno emergere la variazione nell’identico. Delude Soft Moon – Trent Reznor è lontano – mentre gli americani Boy Harsher, seppur non campioni di originalità, sono stati capaci di far ballare l’intera sala principale con la loro disco anni ’80. A dimostrazione di come le «vecchie ideologie», anche in musica, siano ormai in frantumi.