La svolta della Bolognina arrivò in ritardo, ma non di anni come sostengono i miglioristi, solo di qualche mese, perché, rivela Piero Fassino, «ne avevamo parlato prima dell’estate, poi avevamo convocato una direzione, ma c’erano le elezioni a Roma, e quindi rimandammo per non cambiare simbolo prima del voto». E fu così che il Pci poteva anticipare il grande crollo del muro di Berlino – come meritava, essendo il più scettico del partiti fratelli del Pcus con il quale ormai aveva rotto – e invece perse l’attimo E il 12 novembre 1989 Occhetto dovette precipitarsi a un incontro domenicale a Bologna, con i partigiani di Porta Lame, per annunciare la svolta ed evitare di finire sotto le macerie del comunismo.
Operazione non riuscita. L’ultimo segretario Ds lo racconta a Bologna, alla Biblioteca della Sala borsa, nel trentennale della svolta. Sala strapiena, cinque file di «riservati»in cui si stringono compagni, professori, dirigenti, ex a vario titolo. Fra gli altri si sono Ugo Sposetti, Fabio Mussi, Claudio Petruccioli, l’ex presidente della regione Laforgia, il professore Pasquino. Quando Achille Occhetto guadagna il palco il tono – e anche il blocco degli appunti – è quello delle grandi occasioni. È, almeno per lui, la chiusura di un contenzioso durato tre decenni.

«Oggi sappiamo che, sulla strada indicata dalla Bolognina, serve una nuova svolta della sinistra e delle forze della democrazia militante che devono rigenerarsi in un campo più ampio», dice. Rivendica la primogenitura di un percorso che porta a oggi, si appella al segretario Pd Zingaretti per aprire quel «processo costituente» da cui fu fatto fuori. Dopo trent’anni di amarezze si offre come padre nobile della futura cosa di sinistra che deve nascere da una svolta che ha in quella dell’89 la matrice politica e culturale. Non si sa se è un augurio o un avviso di pericolo.

L’occasione è offerta dall’ultimo libro dell’ultimo segretario Pci, Il crollo del muro e la svolta della Bolognina (Sellerio). Ma è il pretesto per colmare «un vulnus», lavare «l’infamia di una rimozione», «si è passati da Berlinguer al Pd» come se tutto quello che c’è stato in mezzo – la svolta e tutte le successive svolte ma anche cantonate – fosse da rimuovere. Occhetto rivendica che la sua scelta non fu improvvisata e elenca tutti i passaggi in cui fu preparata. «Il percorso di revisione aveva alle spalle lo strappo di Berlinguer» , dice con orgoglio. Rivendica «l’approccio critico con cui noi ci collocammo all’avanguardia del movimento riformatore» – ma qui con buona pace della ritrovata armonia con tutti i riformisti non resiste a un calcio postumo a Craxi, che lo irrise per quel suo congresso aperto da una riflessione sull’Amazzonia, «questo genio» dice del capo del Psi, oggi che l’Amazzonia è un simbolo planetario.

A testimoni del ricongiungimento familiare ci sono fra gli altri Romano Prodi, fondatore dell’Ulivo, e Piero Fassino, ultimo segretario dei Ds ma anche fondatore del Pd. Zingaretti è negli Usa ma ha mandato un video. A introdurre c’è il segretario del Pd bolognese, preoccupato più dell’oggi – le regionali dell’Emilia – che di ieri, «nell’89 avevo 5 anni». Oggi, annuncia sibillino Fassino, «mi auguro che Zingaretti abbia lo stesso coraggio» di Occhetto, facendo balenare che una nuova svolta è alle porte. In effetti nel weekend il Pd qui a Bologna celebrerà la tre giorni di «rifondazione» del Pd intitolata «Tutta un’altra storia». E benché la faccenda appaia meno epocale, è un fatto che nel suo videomessaggio Zingaretti ringrazi Occhetto «per il suo atto coraggioso» a nome dei «democratici italiani», formula ripetuta due volte. Sarà che è negli Usa. Al Nazareno negano un imminente cambio del nome. E tuttavia.
Occhetto dunque si apre la porta del pantheon del nuovo Pd, indica gli errori del dopo svolta, il ‘male oscuro’ delle divisioni ma soprattutto gli anni della subalternità al neoliberismo, ce l’ha con i dirigenti di epoca dalemiana e successivi. Ora si ritroveranno tutti insieme nel nuovo Pd di Zingaretti? Forse. Ma i problemi restano. Basta ascoltare il dibattito.

Claudia Mancina, ala destra del Pci è ora del Pd spiega che l’ultimo dei problemi è stata la subalternità al neoliberismo. Romano Prodi, come non l’avesse sentita, spiega che in quegli Anni 90 rincorrere il riformismo della terza via era difficile perché «Blair andava sempre più a destra» e poi, il dibattito sulle imposte, «per noi lo slogan era più tasse più salute, meno tasse meno salute». L’allusione non è solo a Renzi, ma anche al Pd che lo insegue a destra come un tempo il Pds con il New Labour. «Le grandi idee sono due, la svolta e poi l’Ulivo», dice Fabio Mussi salutando i compagni. Il Pd, finché non decide deve andare, non è una grande idea. Sono passati trent’anni, ma sembra ieri, anzi oggi. E oggi come ieri la sinistra, o la nuova cosa, se non chiarisce «l’analisi» rischia di restare al palo.