Ad un certo punto prende il microfono e dice qualche parola: ma si interrompe subito, come in un riflesso di timidezza, per tornare al più presto a rifugiarsi nella sicurezza del suo vibrafono. Joel Ross proprio non ha niente del piacione, ed è la prima cosa che fa simpatia. Con un berretto di lana calcato sulla testa, i lunghi dreadlocks che gli incorniciano la faccia, gli occhiali, la mascherina, quasi a volersi nascondere, è completamente calato in quello che suona. Ventiseienne, chicagoano, newyorkese di adozione, è tra i jazzmen più brillanti della giovane generazione. A JazzMi, il lungo festival milanese (11 giornate) che si è chiuso domenica 31, avrebbe dovuto esibirsi in quartetto, con al sax alto Immanuel Wilkins, che era con lui nell’album di esordio, KingMaker, così come nel successivo Who Are You? (entrambi Blue Note, 2019 e 2020). Peccato non aver potuto ascoltare un sassofonista interessante come Wilkins, ma l’occasione di concentrarsi maggiormente sulla personalità di Ross ha compensato la sua assenza. Al vibrafono ha suonato in maniera limpida, incisiva, senza fronzoli e senza particolari virtuosismi, con una certa essenzialità e, si potrebbe dire, serietà espressiva che catturavano l’attenzione. C’era una forte serietà anche nel trio, con la contrabbassista Kanoa Mendenhall e il batterista Jeremy Dutton, suoi abituali accompagnatori; Dutton è un batterista molto dinamico ma in maniera sottile, non invadente; non c’era un particolare interplay, con basso e batteria fondamentalmente al servizio di Ross, in maniera discreta ma sicura. Da un certo momento in poi Ross si è alternato fra vibrafono e pianoforte. Il suo è parso un pianismo riflessivo, anche lirico, ma asciutto, parsimonioso e piuttosto ritmico; anche al piano Ross ha feeling, e, se non dice cose sconvolgenti, però ha qualcosa da dire, il che non è poco, in mezzo a tanto inutile pianismo jazz di oggi. Bello quando al vibrafono suona Django, il cavallo di battaglia del Modern Jazz Quartet: anche in questo caso con sobrietà e contegno, e proprio per questo in maniera molto toccante.

TRA LE PROPOSTE più attese del cartellone c’era Broken Shadows dei sassofonisti Tim Berne e Chris Speed e di Reid Anderson e Dave King (questi ultimi noti soprattutto come basso e batteria del trio Bad Plus): quartetto di ispirazione colemaniana che rivisita brani del repertorio di Ornette e di altri due sassofonisti come lui di Fort Worth, Dewey Redman e Julius Hemphill, mettendo l’enfasi sulla bellezza delle melodie, sulla forza emotiva dei pezzi e tagliando abbastanza corto nelle improvvisazioni. L’idea è buona ma dal vivo è sembrata soffrire un po’ della mancanza di una definizione esecutiva più precisa (e il pensiero correva al progetto di Zorn con Tim Berne di fine anni ottanta, che rileggeva Coleman in chiave fulminante e hardcore e di definizione ne aveva da vendere).

PRIMA DEL COVID JazzMi ha puntato su una dimensione massiccia anche per fare «evento», visto che a Milano gli «eventi» funzionano: alla sesta edizione l’impressione è che JazzMi dovrebbe fare meno, in maniera più selettiva e meno dispersiva. Del cappello di JazzMi si è giovata l’etichetta d’avanguardia We Insist!, che ha proposto con ottimo riscontro un festival nel festival presentando dal vivo artisti dei propri dischi, come il trio di Michel Doneda, sax soprano, Andrea Grossi, contrabbasso e Filippo Monico, batteria. Inglobata in JazzMi forse invece a rischio di una certa perdita di identità nel calderone generale una rassegna che esiste da una ventina d’anni come Ahum, che si svolge nel quartiere Isola, e che ha proposto fra l’altro il corroborante duo di blues-rock in chiave avantgarde ed elettronica del vocalist Eric Mingus e del chitarrista Elliott Sharp.