C’è un rapporto tra il weberiano «disincantamento del mondo» e la violenza contro le donne. L’intensificazione di questa violenza può essere considerata la leva di un processo di riorganizzazione del capitalismo su scala globale, la pratica che fa strada al dominio della tecnica e della razionalizzazione del lavoro che il sociologo tedesco riconosceva come cifra del capitalismo e della sua organizzazione politica nello Stato. La sfida di Reincantare il mondo, di pensare insieme femminismo e politica dei commons muove la riflessione di Silvia Federici nella recente raccolta di saggi curata da Anna Curcio (ombre corte, pp. 220, euro 19). Come già quelli contenuti in Il punto zero della rivoluzione (ombre corte, 2014), i saggi occupano un vasto arco temporale (dal 1990 al 2017), ma devono essere letti guardando alle dinamiche che strutturano l’ordine neoliberale e alla sollevazione globale delle donne che lo sta investendo.

I MATERIALI RACCOLTI nella prima parte del volume rispondono all’esigenza di comprendere i processi costitutivi del presente, cogliendo il nesso tra accumulazione originaria e riproduzione. A Federici non interessa ritornare sul processo storico avvenuto all’alba del capitalismo, ma affermare che quel processo di cui Marx discute nel primo libro del Capitale si riattiva nelle fasi di ristrutturazione capitalistica, manifestandosi non come separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, ma come «attacco concertato ai mezzi di riproduzione più basilari». Questo attacco ha assunto forme diverse su scala planetaria – piani di aggiustamento strutturale, smantellamento del welfare, debito e finanziarizzazione della riproduzione, guerra che tuttavia sono strettamente legate tra loro e determinano una totale interdipendenza economica, minando alla radice l’autosufficienza delle aree sulle quali intervengono. Nel lungo processo di affermazione dell’ordine neoliberale, le nuove recinzioni sono la chiave di volta per comprendere la globalizzazione capitalistica.

Pur assumendo forme diverse e pur manifestandosi su scala planetaria, per Federici questo processo può essere osservato più chiaramente là dove l’uso comunitario della terra resiste alla ristrutturazione capitalistica. Tra il 1991 e il 2001 in Africa – soprattutto in Ghana, Congo, Zambia, Tanzania e Sudafrica – ventimila persone, per la maggior parte donne anziane, sono state uccise come «streghe» affinché la privatizzazione della terra potesse avere luogo. Questa «caccia alle streghe» contemporanea mostra che l’espansione globale del capitalismo richiede di spezzare i legami di solidarietà comunitaria che permettono di sopravvivere al di fuori dei vincoli del capitale.

LE DONNE sono più colpite dalla violenza della globalizzazione perché, con il loro lavoro, sono le prime responsabili della riproduzione della comunità. La violenza contro le donne è «conseguenza e strumento dei rapporti capitalistici». Essa consente di spazzare via l’«idea non commerciale della ricchezza e della sicurezza economica» che si esprime nell’«economia politica di sussistenza». Il capitale fa leva sul patriarcalismo comunitario per fomentare l’insofferenza delle nuove generazioni all’impoverimento che lo stesso capitale impone.
Per appropriarsi privatamente della terra e cederla alle compagnie agrarie e minerarie, i giovani maschi africani diventano la mano armata della nuova caccia alle streghe, eliminando chi ne difende l’uso comunitario.

Di fronte a questi processi, i commons sono una prospettiva politica praticabile perché già praticata, in primo luogo dalle donne che resistono a espropri e privatizzazioni, non solo in Africa, ma in ogni parte del mondo. Dalle esperienze dei socialisti utopisti nel XIX secolo alle recenti forme di commoning obbligate dalla necessità – gli orti urbani in Africa e nelle grandi metropoli, le cucine di quartiere organizzate dalle donne in Cile nel 1973, in Argentina nel 2001 o in Grecia nel 2008, le tent cities sulle due coste nordamericane e gli accampamenti che hanno sostenuto gli Indignados, Occupy e le primavere arabe – Federici stabilisce una linea di continuità politica data dalla creazione di legami mutualistici a partire dalla condivisione dei mezzi della riproduzione. Così concepiti, i commons permetterebbero di andare oltre la dicotomia tra personale e politico, tra pubblico e privato e, soprattutto, oltre i confini della lotta salariale.

LA PROSPETTIVA femminista proposta da Federici permette così di politicizzare la riproduzione attraverso la costruzione delle basi materiali comunitarie per sottrarsi alla presa del mercato e dello Stato. Nelle sue intenzioni, i commons non si basano sull’affermazione di un’«identità femminile» costruita a partire dalla naturalizzazione delle funzioni riproduttive, ma sul riconoscimento del potere sociale che le pratiche della riproduzione conferiscono alle donne. Eppure, affermando che il «produrre cibo ed esseri umani» permette di comprendere più profondamente «i limiti naturali del nostro operare», Federici schiaccia la soggettività delle donne in una «simbiosi» con la natura che in definitiva si adatta alla più classica divisione sessuale del lavoro messa a valore nel capitalismo. La comunità – senza la quale per Federici i commons non possono sussistere – sarebbe quindi la via d’uscita non solo dalla società globale del capitale, ma anche dal patriarcato che del capitale, in ultima istanza, sembrerebbe solo un effetto secondario.

Poiché per lei i commons sono una pratica di trasformazione che ambisce a divenire un modo di produzione alternativo ed egualitario, è secondario chiedersi se queste strategie di sopravvivenza indipendenti dal salario non siano anche ciò che ne permette la continua compressione e se, soprattutto, l’identificazione delle donne con le attività riproduttive sostenga le gerarchie sessuali che il capitale, nel suo incontro con il patriarcato, produce e riproduce.

D’ALTRA PARTE, la prospettiva comunitaria di Federici dovrebbe essere messa alla prova dell’esperienza e delle pretese soggettive di milioni di donne che, in ogni parte del mondo, rifiutano di essere incatenate alla comunità e alle sue gerarchie sessuali e che sono disposte, per conquistare la libertà, a mettere a rischio la propria vita e attraversare i confini. Tuttavia, delle migrazioni Federici non sottolinea la pretesa di libertà, interpretandole piuttosto come un «movimento demografico» indotto dalle nuove recinzioni, la reazione a un impoverimento imposto dal capitale al quale i commons comunitari dovrebbero invece offrire una soluzione. Benché siano, per lei, una pratica politica orientata verso il futuro, con questi commons comunitari ritorna costantemente il segno di utopie passate, nelle quali il reincantamento del mondo coincide con la sua «re-ruralizzazione», nel timore che lontano dalla terra si perda necessariamente anche il rapporto con la natura, con il corpo e con gli altri.

Federici dichiara di ispirarsi al «femminismo popolare» argentino, il fulcro potente del movimento contro la violenza maschile che si è diffuso al grido di Ni una Menos. Parlando di questo movimento nell’introduzione al volume, tuttavia, l’autrice non fa menzione dello sciopero globale delle donne, la pratica politica che ha spinto il femminismo oltre i confini della comunità e ha trasformato sacche locali di resistenza in connessioni globali tra soggetti che vivono condizioni diverse e distanti, ma sono legati dal rifiuto comune di oppressione e sfruttamento. Non dalla semplice invocazione o pratica quotidiana della sopravvivenza, ma dalla pretesa incontenibile di una vita non riducibile ad alcuna miseria presente.

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La versione integrale di questa recensione è disponibile sul sito www.connessioniprecarie.org