Era solo questione di tempo perché l’operazione turca su al-Bab, nord di Aleppo, aprisse un nuovo fronte. Con l’Esercito libero siriano (Els) che premeva da nord con il supporto militare della Turchia e quello governativo a sud, lo scontro diretto era inevitabile.

Ed è arrivato domenica sera: Damasco aveva appena annunciato la ripresa della cittadina di Tadef, quattro km a sud di al-Bab (occupata invece da Ankara), dopo che i miliziani Isis vi avevano trovato rifugio. Secondo le stesse opposizioni, sono stati i “ribelli” dell’Els ad aprire il fuoco sulle truppe governative «uccidendo 22 soldati».

Immediata la reazione del governo che ha bombardato postazioni dei gruppi anti-Assad a Homs e Damasco e descritto l’attacco come la prova che «l’obiettivo delle opposizioni non è combattere l’Isis ma ostacolare le operazioni dell’esercito contro l’Isis».

Ma soprattutto l’obiettivo della Turchia e delle sue braccia siriana è assumere il controllo del nord del paese, da trasformare in un’enclave sunnita sotto l’influenza turca.

La Russia (che da tempo tenta di negoziare un accordo
tra Damasco e Ankara sullo status di al-Bab) sta mediando per far rientrare l’incidente, capace di far saltare il già poco fruttuoso tavolo di Ginevra.

Dopo cinque giorni di incontri in Svizzera, ancora nulla è uscito dal negoziato, rallentato da questioni di forma che hanno lasciato fuori quelle prettamente politiche.

Ad emergere al momento sono lo sconforto (nemmeno troppo sottaciuto) dell’Onu, le azioni militari che fanno traballare il dialogo (dagli attacchi dell’ex al-Nusra a quelli dell’Els) e l’assenza di una base comune di discussione.