Sebastian e Pastora vivono in un villaggio Shuar nell’alta Amazzonia dell’Ecuador. Sebastian non è solo un guaritore rispettato, suo padre era infatti uno sciamano, ma anche un botanico che nelle sua camminate sperimenta con piante sconosciute che incontra nella foresta. È una pratica attraverso la quale cerca di coltivare nuove conoscenze, ricollegandosi così alle pratiche portate avanti dai suoi antenati per millenni. Pastora è sua moglie, una delle rare donne in Amazzonia che sono state scelte per rappresentare la comunità a cui appartengono, il suo è un difficile lavoro di negoziazione con le autorità locali per ottenere piccoli ma significativi avanzamenti nel suo villaggio. A livello macroscopico questo rapporto rappresenta il venire a patti fra la nazione Ecuador e una tribù indigena, gli Shuar, che per millenni ha abitato la foresta e che non ha mai riconosciuto lo stato moderno. Le vite di questa famiglia e la foresta in cui vivono e da cui dipendono sono i personaggi centrali di un notevole documentario uscito in questi mesi in Giappone, Kanarta: Alive in Dreams.

Debutto del giovane Akimi Ota dietro la macchina da presa, giapponese che ha studiato antropologia e sociologia in Francia e poi a Manchester, Kanarta è un documentario ibrido, in parte etno-cinema, in parte osservazione della quotidianità della vita in Amazzonia e in parte cinema sperimentale che cerca di immergere lo spettatore nelle immagini che presenta sullo schermo. Ma forse il film ha fra i suoi pregi maggiori quello di essere un’opera visiva che scaturisce ed è innervata dalla relazione dialogica che si crea fra Ota, Sebastian, Pastora e la foresta. Fin dalle prime scene è infatti chiaro come le piante che dalla foresta provengono e che Sebastian raccoglie sono alla base della vita della comunità del villaggio. Chicha è una sorta di bevanda alcolica preparata con tuberi fermentati dopo esser stati masticati, sputati e bolliti e sembra essere la benzina che fa andare avanti le attività del villaggio, niente si muove senza chicha, dalla costruzione delle abitazioni alla caccia, dalla raccolta di alberi e piante alle esplorazioni della selva. L’ayahuasca e la maikiua sono invece usate per avere accesso a visioni e sogni, gli Shuar dicono infatti kanarta, quando vogliono augurare a qualcuno di avere un buon riposo e sogni e visioni che rivelino la verità su sé stessi.


La presenza del regista, che qui è anche cameraman, non è mai nascosta, spesso le persone filmate si rivolgono infatti direttamente a lui chiamandolo Nanki. Più che un soprannome, come Ota stesso ha dichiarato, Nanki è una sorta di personalità e alter ego del regista che è venuta a galla e si è costruita durante i tredici mesi passati nella foresta amazzonica in Ecuador. Come accennato più sopra, nel film ci sono anche alcuni lampi di cinema più sperimentale, specialmente quando le immagini ed i suoni si slegano da quello che viene detto. Sono queste le parti in cui Pastora e Sebastian parlano in spagnolo, al contrario di quanto avviene nel resto del documentario che è quasi tutto in lingua Shuar, raccontando più in profondità della loro esperienza con le visioni causate dall’ingestione di piante psicotrope e di come queste visioni abbiano indirizzato e guidato le loro vite.

Per Sebastian le visioni con l’ayahuasca, una di queste è anche filmata con tanto di vomito rituale, gli hanno permesso di connettersi con i suoi antenati sciamani, ma anche di vedere il futuro e di come suo figlio avrebbe continuato in qualche modo la tradizione di famiglia diventando un assistente sanitario, studiando la medicina occidentale. Le visioni hanno invece aiutato Pastora a convincersi della bontà della sua scelta, quella di prendersi carico di rappresentare il villaggio durante le riunioni con i rappresentanti della nazione ecuadoriana e di richiedere, fra le altre cose, dei lavori per avere l’acqua nelle zone abitate dalla sua gente. Il rapporto tra medicina occidentale e più in generale il modo in cui modernità e pratiche ancestrali Shuar si fondono è uno degli elementi più affascinanti di tutto il lavoro, perché se è vero che c’è un indubbio orgoglio nel considerare le piante come qualcosa di più che delle medicine «i rimedi ricavati dalle nostre piante medicinali sono più che scienza, le piante medicinali sono rimedi della nostra cultura.

Queste piante costruiscono la realtà, e ci permettono di vivere il futuro, soprattutto il presente ed il futuro» dice il figlio dei due protagonisti, allo stesso tempo la medicina occidentale viene ampiamente usata. Una delle scene più toccanti del film è quella in cui Pastora e Sebastian presenziano alla cerimonia in cui il figlio viene nominato assistente sanitario e posano fortemente emozionati di fronte alla videocamera. O ancora quando durante una camminata nella foresta, Sebastian si ferisce rischiando la vita, ma è salvato da suo figlio che lo cura prima con alcune medicine occidentali e poi con un preparato di erbe. Interessante è notare come un simbolo di questo andare verso il futuro tenendo sempre presenti e ibridando le pratiche ancestrali Shuar, sia contenuto nel titolo giapponese del film, Kanarta: rasenjo no yume, che significa «Kanarta: sogni a spirale», un movimento circolare ma che procede verso nuove direzioni.

Gran parte del film è costituito dalle camminate dentro la foresta di Sebastian, da solo o con i suoi compagni, e dal senso di stupore quando scopre quelle che potrebbero essere nuove piante medicinali, e più in generale da un senso di gioia che viene esternalizzata attraverso il canto, una gioia che è contagiosa e che permea tutto il film. Anche le immagini quasi tattili di molti dei particolari della foresta che vengono presentati sullo schermo, insetti, acqua o il verde vivissimo delle foglie, sembrano sprizzare gioia di vivere. Nei momenti in cui la ricchezza di questa vita che deborda da ogni angolo, bella ma terribile, l’ammassarsi cioè della vita non-umana nel cuore della foresta, viene catturata in immagini, il film si trasforma in un notevole esempio di cinema sensoriale, un’opera di etnografia multispecie che pone l’essere umano come uno degli esseri, non il solo e il più importante.

Questo sentimento viene espresso apertamente in una delle scene finali del film, quando Sebastian rimarca come abbia rifiutato più volte di procurarsi da vivere allevando bestiame, perché per far ciò avrebbe dovuto abbattere una parte della foresta. Ma distruggere la foresta è, nelle sue stesse parole «come distruggere me stesso, come rovinare la mia salute e il mio stesso corpo».

Intervista con l’autore
Il cineasta e antropologo giapponese Akimi Ota (classe 1989) ci racconta come è nato il documentario Kanarta girato in Ecuador e come è nato il suo interesse verso gli Shuar: «La mia storia comincia nel 2011, quando per così dire cambiò il mio modo di vedere il mondo. Mi trovavo a Parigi all’università EHESS dove studiavo sociologia ed antropologia, quando il triplice disastro del terremoto, tsunami e meltdown nucleare colpì il Giappone. Quando ero a Parigi prima e a Manchester poi era molto difficile per me far capire ai miei colleghi quello che stavo provando, specialmente nel contesto degli studi di antropologia. Ai miei colleghi interessava solo quanto io potessi contribuire alla disciplina, ma io pensavo a come l’antropologia potesse essere un modo per vivere in maniera alternativa, specialmente nel post-marzo 2011.

«A quel tempo stavo facendo ricerca sulle giovani generazioni che abitano le banlieue, e come il calcio fosse una delle vie d’uscita per i figli degli immigrati che lì vivono. Dopo il disastro che colpì il Giappone però, non fui più in grado di continuare queste ricerche, i miei pensieri cominciarono a rivolgersi verso diverse direzioni, specialmente cominciai a riflettere su come l’umanità si potesse relazionare all’ambiente ed alla terra. Al tempo, era forse il 2014, frequentavo i corsi di Philippe Descola, lui si occupava degli Achuar dell’Ecuador e tutti i suoi scritti erano impostati su come uomo, natura e cultura si intrecciano. In Giappone non era ancora stato tradotto, ma io mi appassionai al suo lavoro e lessi tutti quello che potevo trovare. Proprio in quel periodo mi accorsi che quello che provavo come conseguenza del terremoto del marzo 2011 era qualcosa che era comune a quello che tutti, in un modo o nell’altro, stavano facendo esperienza sulla terra.

«Decisi allora di cambiare la direzione del mio dottorato, all’inizio volevo diventare un fotografo documentarista, ma mi resi conto che per far ciò avrei avuto bisogno anche di investimenti e connessioni, e così mi venne l’idea di realizzare un film che in qualche modo fosse connesso all’antropologia, e scoprii che l’università di Manchester, che ha una ricca storia di antropologia visuale, offriva un dottorato di studi in questa disciplina. Dopo essermi trasferito a Manchester, ho cominciato a pensare di andare in Ecuador per il mio progetto perché il paese sudamericano mi fu suggerito da colleghi ed amici, ma anche perché ho imparato molto da Descola, ma allo stesso tempo mi resi conto che lui era molto eurocentrico, molto schematico, per esempio il suo modo di sistematizzare l’animismo giapponese in Oltre natura e cultura non mi trovava affatto d’accordo. Quindi se fossi andato in Ecuador a studiare la foresta amazzonica, avrei dovuto leggere tutti i suoi testi e quindi avrei potuto anche provare a contestare alcune parti del suo pensiero e trovare percorsi alternativi».

Hai cominciato a filmare fin da subito, oppure solo dopo che eri entrato in sintonia con la comunità che ti ha ospitato?
Sono stato prima tre giorni nella comunità che poi avrei filmato e poi ho visitato anche altri villaggi, ma ho subito capito che c’era qualcosa di speciale nella comunità Shuar e specialmente nella famiglia di Sebastian e Pastora. Mi hanno accolto a braccia aperte fin dal primo giorno, quando gli ho detto che volevo filmare e fare una ricerca antropologica su di loro, e ho così cominciato a vivere con loro, nella loro casa. Sono rimasto nel loro villaggio per tredici mesi, dall’agosto del 2016. Il modo in cui ho girato il film è ispirato al cinéma vérité, metodo che permette di catturare la relazione tra colui che filma ed il soggetto, una relazione che emerge da una costante negoziazione tra chi filma e chi è filmato, per questo motivo ho cominciato a girare fin da subito, la videocamera ha funzionato cioè come una sorta di catalizzatore di tutte queste relazioni.
In questo senso ho trovato che uno dei punti più interessanti del film è che Pastora e Sebastian sono, per così dire, i co-autori del film, c’è molto di loro nel documentario. Questo è importante perché quello che si vede nel film non è qualcosa che ho voluto solo io, o che ho pianificato. Molte delle scene sono nate per motivi accidentali, senza una specifica intenzione. La prima scena del film, per esempio, era solo una prova per vedere se la mia videocamera funzionasse, ma Sebastian ha cominciato a camminare, parlare e cantare in Shuar ed è così diventata il punto d’inizio del film. A quel tempo non parlavo e capivo ancora la lingua Shuar e quindi filmavo più con il corpo che con una volontà di ricerca verso quello che Sebastian stava dicendo.

C’è un senso di gioia che permea tutto il documentario, ci puoi dire qualcosa di più in proposito?
Sì, è vero, ci sono molte ragioni per cui il film emana gioia. Prima di tutto perché volevo creare qualcosa di positivo che potesse ispirare lo spettatore, perché esiste una sorta di distacco tra quello che cerco di fare e gli intellettuali europei o sudamericani. Questi nella maggioranza dei casi, presuppongono che esistano dei problemi e che noi dobbiamo risolverli, e spesso, anche giustamente, credono che cambiando le politiche si possono ottenere risultati. In verità, anch’io faccio parzialmente parte di questo modo di pensare, che è debitore di certo modo di affrontare la realtà in modo rivoluzionario, ma le reazioni a cui ho assistito dopo il disastro del 2011 sono state molto deprimenti e mi hanno spinto verso diverse direzioni. In un mondo ideale vorrei che le persone potessero cambiare, ma ho realizzato questo film non per insegnare qualcosa alle persone, o mostrare dei fatti, ma più per liberare le persone dalle loro idee statiche attraverso una esperienza sensoriale. Se saremo mai capaci di trasformare qualcosa di questo mondo, avverrà attraverso qualcosa di gioioso, qualcosa che ci faccia sentire bene. Ho fatto questo film per andare in questa direzione, senza voler per forza essere didascalico, anche se Kanarta, essendo un’opera di antropologia visiva, può anche essere interpretato in questa luce, ma esistono molti altri livelli attraverso i quali il film può essere esperito.

Guardando il documentario si percepisce come la foresta, con tutti gli esseri di cui è fatta, sia una parte quasi corporea per gli Shuar, le piante, gli insetti, la terra, l’acqua sono carne del loro corpo, come lo stesso Sebastian dichiara nel film.
Volevo catturare l’esperienza della foresta come carne. La natura spesso è esperita come un oggetto, un bell’oggetto da visitare magari nel weekend, ma in Amazzonia volevo catturare come non sia facile coesistere con la natura, volevo catturare la complessità di come esista una continua negoziazione tra diversi esseri, diverse carni, nella natura e nella foresta. Allo stesso tempo sono abbastanza critico verso l’approccio di certi antropologi che dedicano molta attenzione ai miti, mentre io sono più interessato ad una mitologia incarnata, per i Shuar i sogni e le visioni, che è qualcosa che si trasforma di continuo, si tratta di una cultura orale, dove ognuno interpreta e quindi modifica i miti le loro storie quando vengono comunicate. Volevo catturare questa fluidità che esiste nella loro cultura. In questo senso, una cosa che ho trovato molto interessante è come gli Shuar diano moltissimo valore ai diritti umani, una cosa che mi ha colpito molto. Quando arrivai nelle loro comunità, da quello che avevo letto e studiato, mi aspettavo che vivessero in un mondo differente dal nostro, ma in realtà, per esempio, parlano molto di diritti umani e di democrazia. Questo mostra un’attitudine che non insiste troppo nella loro tradizione, la tradizione stessa è una proiezione nostra che proviene da una forma mentis derivata forse dall’imperialismo.

A cosa stai lavorando al momento, progetti più indirizzati verso l’esperienza artistica o più verso quella antropologica?
Ho realizzato una serie di installazioni per una mostra attualmente in corso in un museo di Atami, ci sono molti artisti davvero bravi, in generale comunque, e per rispondere alla tua domanda, per me l’antropologia è più una fonte di ispirazione che un campo dove studiare, penso che questo sia il percorso che intendo seguire.