Le recenti polemiche sulla decisione dell’Università di Yale di riorganizzare in chiave multiculturalista i propri corsi di storia dell’arte, o il clamore destato in Francia dalle candidature ai Premi César dell’ultimo film di Roman Polanski, sono due sintomi del medesimo processo di perturbazione dell’ordine interno alla cultura in atto già da anni. Negli ultimi tempi, in effetti, critica, denuncia e censura morale in campo artistico sono cresciute enormemente sia nel numero che soprattutto nelle pretese. Adesso sembra importante e scontato che l’arte persegua innanzitutto obiettivi sociali, e che opere e artisti possano e debbano essere giudicati in base a criteri morali e dunque biasimati o sanzionati nel momento in cui violano in qualche modo tali parametri. Di questo tema si occupa la filosofa francese Carole Talon-Hugon nel volume intitolato L’arte sotto controllo Nuova agenda sociale e censure militanti (Johan & Levi, pp. 110, euro 13,00).
Il libro si apre con un repertorio di casi emblematici, esempi attuali di critica moralistica contro opere di varia natura – letteraria, visiva, teatrale, ecc. A volte l’opera è accusata di generare una sconveniente estetizzazione di contenuti riprovevoli, o di metterli apertamente in scena; altre, di produrre effetti «illocutori», che incoraggiano comportamenti criminali, oppure «perlocutivi», che suscitano emozioni negative, corruttrici. Spesso ad accendere lo sdegno non è l’oggetto artistico in sé bensì le circostanze della sua creazione, magari perché l’autore o l’interprete si è in qualche momento macchiato di cattiva condotta – come nella vicenda che vede coinvolto Polanski. Il valore artistico dell’opera viene allora offuscato per assimilazione dal giudizio morale sull’autore. Un altro tipo di accusa è quello dell’«appropriazione culturale indebita», ovvero si contesta il fatto che qualcuno tratti temi quali la discriminazione, il razzismo o le molestie, senza averne titolo, senza averli vissuti sulla propria pelle.
Qualunque sia l’imputazione, Talon-Hugon trova comunque strano che per controbattere si faccia sempre meno appello alla libertà di espressione e si preferisca ribaltare il discorso sullo stesso piano dell’accusa, sostenendo che dietro un’apparente immoralità l’opera veicola un messaggio edificante che è stato evidentemente frainteso. «L’artista indifferente o provocatore ha lasciato il posto a un’altra figura: quella dell’artista serio, virtuoso e impegnato».
Talon-Hugon si domanda se questa «svolta moralizzatrice» non sia un ritorno al passato, a prima che l’arte accedesse al regime di autonomia che fin da metà Ottocento le ha consentito di sganciarsi dalle considerazioni morali. Ma l’autrice esclude tale ipotesi, perché nei secoli da Platone a Schiller l’arte è stata l’espressione di un’etica al servizio della causa universale dell’umanità. Oggi, al contrario, l’arte sembra farsi carico di «difendere in maniera aggressiva» le rivendicazioni particolari di gruppi minoritari, con la conseguenza paradossale di incentivare la disgregazione sociale e la lacerazione del tessuto culturale, anziché l’integrazione o la solidarietà. Buona parte delle battaglie artistiche riguardano infatti individui riuniti in comunità dal loro colore della pelle, dalla condizione sociopolitica, dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere. «L’ossessione per le differenze, che lavorano a scapito delle somiglianze che accomunano, promuove le comunità chiuse, l’intolleranza e il sospetto. L’atomizzazione delle rivendicazioni è indefinita e apre potenzialmente a infiniti conflitti. La coscienza identitaria rischia di sostituire la coscienza politica e la visione di un bene e di un destino comuni. Essa porta alla frammentazione oggi evidente negli Stati Uniti perfino nelle discipline che si occupano di arte: la storia dell’arte è segnata dal problema della razza e dell’identità di genere».
Dato che la questione morale presuppone l’idea che l’arte sia in grado di rendere gli uomini migliori o peggiori, Talon-Hugon si pone il problema dell’efficacia, ossia dei risultati concreti a cui un’opera artistica è in grado di arrivare attraverso la sensibilizzazione del pubblico su argomenti di rilevanza etica. L’efficacia si manifesta in maniera diversa a seconda che si abbia a che fare con opere «simboliche», dispositivi che per essere decifrati richiedono la mediazione di un testo (cataloghi, interviste, dichiarazioni), oppure opere «documentali», sorta di inchieste storiche o sociologiche rese mediante l’esposizione di archivi, statistiche, grafici. In ogni caso, l’autrice non ha dubbi: «l’efficacia pragmatica è inversamente proporzionale all’artisticità». Quale potere hanno, infatti, i 500.000 visitatori «della Biennale di Venezia del 2017 rispetto ai due miliardi di like di un qualsiasi video caricato da Justin Bieber, Rihanna o qualunque altro youtuber del momento? In termini di impatto, quanto vale un’opera contro il dominio maschile della mostra Mademoiselle in una sala semivuota del Musée d’art contemporain di Sète, a paragone del videoclip che Beyoncé ha girato al Louvre di fronte all’Incoronazione di Napoleone di Jacques-Louis David in nome dell’“empowerment dei corpi femminili e neri?”».
Sebbene la filosofa francese resusciti qui un’obsoleta opposizione tra cultura alta e bassa, si può concordare con lei sul punto che l’arte contemporanea, nella sua accezione istituzionale, è elitaria e predica ai convertiti, per cui «non è fra i suoi accoliti che si troveranno avversari al riconoscimento e all’emancipazione delle minoranze». Parimenti, si può convenire che non spetta certamente all’arte il compito di risolvere complessi problemi sociali.
Per Talon-Hugon, l’antidoto agli eccessi di una morale, che nel momento in cui si dimentica della soggettività dei giudizi e della relatività dei valori frana fatalmente nel fondamentalismo, è la moderazione. Occorre, cioè, saper distinguere tra gli aspetti artistici e quelli etici, e riportare il giudizio entro una prospettiva che, pur senza disconoscere l’eventuale presenza all’interno o a margine dell’opera di elementi deplorabili, tenga conto del contesto di riferimento e non attribuisca meccanicamente alla creazione vizi e misfatti di chi l’ha realizzata. Altrimenti, per coerenza, bisognerà ripudiare anche i capolavori di, ad esempio, Caravaggio o Rimbaud, nonché rinunciare in blocco a intere forme artistiche, come la tragedia o la commedia, che si fondano proprio sui conflitti morali che la rappresentazione artistica è in grado di evocare.