«Questo è il mio stile: purificare, ridurre al necessario», ha dichiarato Peter Stein, regista dell’Aida in scena al Teatro alla Scala in questi giorni, agli studenti dell’Università IULM di Milano che lo hanno intervistato per il consueto video di presentazione dell’opera visionabile nel sito del Teatro. «Abbiamo tentato di lasciare dentro l’Aida l’orientalismo, che ebbe un grande ruolo al tempo della creazione di questo capolavoro, chiaramente solo indicato, non troppo ricco: ci sarà una specie di egizianismo nei costumi» di Nanà Cecchi, unici vezzi cromatici (oro, porpora e nero in alternanza per Amneris, azzurro/viola fissi per Aida, bianco per Radames, con il mantello rosso del trionfo) assieme alle splendide luci di Joachim Barth , incaricate di dare vita alle scenografie fredde e minimali di Ferdinand Woegerbauer, quasi sempre bianche e rigorosamente geometriche. Scarnificate anche le coreografie di Massimiliano Volpini per le Sacerdotesse e i Mori.

Lo spettacolo, che riprende una produzione del Teatro Stanislavskij di Mosca, è stato completamente ricreato nei magazzini dell’Ansaldo; due scene sono di nuova concezione. «Il primo pensiero di un regista è fare tutto secondo le intenzioni di Verdi: ma poi nessuno lo fa…», ha dichiarato ancora Stein, il cui approccio all’opera è iniziato con lo studio della partitura e dei documenti relativi alla prima edizione italiana, curata da Verdi stesso nel febbraio del 1872, poche settimane dopo la prima assoluta avvenuta al Cairo nel dicembre del 1871.
Il risultato, perfettamente in linea con la direzione di Zubin Mehta, è un «sonoro» rispetto della dimensione cameristica e dello scavo psicologico messi a punto da Verdi per obliterare i dettami artificiosi dell’esotismo da grand opéra: moltissimi i piani e i pianissimi, costante la ricerca del timbro e della sottolineatura armonica, accurato e mai frettoloso lo stacco dei tempi.

Memori del fatto che «Verdi chiamava attori i suoi cantanti», regista e direttore si concentrano soprattutto sui rapporti prossemici e vocali tra i personaggi, assecondati da un cast di tutto rispetto. Il soprano statunitense Kirstin Lewis, che ha debuttato alla Scala nel 2014 come Leonora in Trovatore, si disimpegna nel ruolo, scontando però due debolezze della voce (fissità e povertà armonica da un lato, flebilità del registro centrale-grave dall’altro) che fanno di lei un Aida un po’ sbiadita e priva di mordente, complice anche il paragone con l’Amneris del mezzosoprano georgiano Anita Rachvelishvili, dotata di una voce immensa quanto a volume e pastosità, riconoscibile anche nei fortissimi dei concertati, perfetta, a meno di qualche eccesso perdonabile, per il ruolo della tigre ferita. Stein e Mehta ne sono ben consapevoli, se hanno deciso di chiudere l’opera concentrando l’attenzione dello spettatore non solo sulle sue ultime gravissime note («Pace t’imploro…»), ma anche sul sangue che dalle sue vene tagliate si riversa sulla pietra dorata che la separa dall’amato. Squillante e timbrato negli acuti quanto nei gravi Massimiliano Pisapia. Valenti George Gagnidze (Amonasro) e Carlo Colombara (Re). Inascoltabile per sopraggiunti limiti di età Matti Salminen (Ramfis).