Ogni male porta con sé un po’ di bene: oltre a Plinio il Vecchio, che ha coniato la sentenza, devono averlo pensato gli spettatori di Aida in scena al Teatro alla Scala di Milano (fino al 19 ottobre), che le hanno tributato dopo ogni pezzo e dopo il finale applausi scroscianti e grida di giubilo in cui si percepiva una corrente emozionale acuta e complessa. Come la recente Traviata, l’opera è stata eseguita in forma di concerto, spogliata della grandeur di costumi e scene che l’hanno accompagnata, talvolta soffocata, nei quasi 150 anni trascorsi dal suo debutto al Cairo nel dicembre del 1871. Proprio in quella nudità si è compiuto il miracolo: per la prima volta abbiamo potuto, passatemi il bisticcio, guardare la musica, tradurre mentalmente le note in situazioni, luoghi, movimenti, azioni, non in affetti, perché quelli sì, sono tutti inscritti nella partitura offerta all’ascolto.

INSOMMA tutti, anche i non specialisti, sono stati costretti a fare un lavoro ermeneutico di captazione di quelle che Verdi chiamava «parole sceniche», ovvero agglomerati sinaptici di testo, musica e azione che ci comunicano a che punto della trama siamo arrivati e quali sono le forze drammatiche in campo. Un lavoro reso più facile ma non ovvio dal posizionamento dell’orchestra in scena con il coro dietro e i cantanti davanti: abbiamo udito finezze armoniche cha dalla buca spesso sono inudibili, abbiamo gustato le voci dei solisti senza che fossero sopraffatte dai cori. Ma soprattutto abbiamo avuto il privilegio di sentire Aida come Verdi l’aveva concepita per la prima prevista per il gennaio del 1871, poi rimandata a causa del mancato arrivo delle scene da una Parigi presa d’assedio dai tedeschi.

In quella versione, conservata tra le carte del lascito verdiano di Villa Sant’Agata consultabili dalla primavera 2019, all’inizio del terzo atto mancavano l’attacco strumentale e l’aria di Aida «Oh patria mia» e il coro dei sacerdoti «O tu che sei d’Osiride» era composto in stile palestriniano a cappella e a quattro voci (verrà poi sostituito con il coro unisono esotizzante che conosciamo e nel 1874 la musica originaria verrà riusata per il «Te decet Hymnus» del Requiem, con una trasmigrazione parallela a quella del giudizio tripartito dal finale di Don Carlos versione 1867 al quarto atto di Aida). In quella versione dunque, sulla scia della passione di Verdi per gli antieroi e per i registri centrali, assai più “realistici”, delle loro voci (si pensi agli eponimi effettivi Nabucco, Macbeth, Rigoletto e al tentato Jago), il baricentro della drammaturgia vocale è spostato su Amneris, in un clima che, ancora privo dell’illusione di felicità adombrata dal clair de lune nilota aggiunto poi, risulta assai più austero e pessimista e ci ricorda che talvolta solo nella morte «hanno un confine / i mali di quaggiù».

SE LA PASSIONE superba e divorante di Amneris, principessa rifiutata dal condottiero che ama, finisce per accentrare tutto, la scelta Anita Rachvelishvili a interpretarne il ruolo risulta vincente. La voce del mezzosoprano georgiano, stupefacente per timbro (un diluvio di armonici), volume (un registro grave fragoroso) e fraseggio (un’intensità talvolta lancinante nella profferta delle parole), porta a compimento il miracolo, oscurando la performance pur corretta di Saioa Hernández (Aida), ma integrandosi perfettamente con quelle altrettanto corpose di Roberto Tagliavini (Re), Francesco Meli (Radamès), Jongmin Park (Ramfis) e Amartuvshin Enkhbat (Amonasro) e con la direzione calibrata ma sempre generosa di Riccardo Chailly.