Che cos’è l’arte per Ai Weiwei? È una cornice. Una cornice attraverso la quale gettare sguardi diversi sulla realtà. Per la sua mostra fiorentina a Palazzo Strozzi, la prima grande personale italiana, ha appeso 22 gommoni sulla facciata. Lo spunto è l’emergenza migranti, alla quale Ai Weiwei ha dedicato molte energie in quest’ultimo anno. La ragione vera è però quella suggerita dal titolo: Reframe. Cioè Nuova cornice. Non conta tanto la portata simbolica dei gommoni, conta la discontinuità che quel contenuto impone a chi oggi fa arte. Occorre ripensare la cornice, dice Ai Weiwei. L’installazione sulla facciata fiorentina ha suscitato, com’era naturale, tantissime reazioni. Il fatto di dedicare un’opera di queste dimensioni e visibilità all’emergenza migranti era evidentemente destinato a far discutere. Tuttavia ciò che più ha sollevato polemiche è stata la «violazione» delle finestre del palazzo. Cioè la nuova cornice messa alle finestre: oltretutto Ai Weiwei ha fatto un’operazione formalmente ineccepibile, com’è nel suo stile. I gommoni scelti sono tutti nuovi con il loro rosso fiammante; le carene disegnano trame a quadrati che coincidono con le geometrie delle inferriate delle finestre (effetto che si nota soprattutto dall’interno). La nuova cornice veste perfettamente quella storica: ciò che cambia realmente è quel che si vede da quella finestra reinterpretata. «La tradizione non è che un ready made. Sta a noi compiere un gesto nuovo e prenderlo come riferimento, come punto di partenza piuttosto che di arrivo», dice Ai Weiwei in uno degli aforismi disseminati sui muri della mostra.

Se c’è una cifra che caratterizza tutta l’opera dell’artista cinese, è certamente la continua rimodulazione dei contenuti e delle forme della tradizione, in particolare quella del suo paese. Rimodulazione significa innescare corto circuiti ma nello stesso tempo preservare sempre elementi di fedeltà. Il linguaggio di Ai Weiwei non è mai un linguaggio di rottura, e anche i gesti di violazione svelano al fondo un senso di rispetto. La mostra fiorentina, curata da Arturo Galansino (sino al 22 gennaio; catalogo Giunti), vive su questi equilibri narrati con una pulizia stilistica che non conosce sbavature. Il percorso presenta opere già note, che sono state reimpaginate per adattarle a questo straordinario contesto, per altro «usato» con grande scaltrezza: con le finestre aperte e i muri in gran parte liberi la mostra offre la possibilità di ammirare gli spazi stupefacenti del palazzo.

Si inizia passando sotto l’arco delle biciclette dell’installazione Stacked. Un’immagine tra le più note di Ai Weiwei: l’odor di gomma, le ruote che si possono far girare, i riflessi argento dei cerchioni lustri costituiscono una miscela abilmente calibrata per conquistare subito il visitatore. Certamente più emotivamente intensa è la seconda sala, che Ai Weiwei dedica ancora una volta a una delle sue battaglie: quella per rendere giustizia a quanto accaduto con il terremoto nel Sichuan, nel 2008. Morirono migliaia di bambini sotto le macerie di scuole costruite al risparmio con tondini di acciaio di cattiva qualità. Le piccole bare contorte, sulle quali sono stati appoggiati frammenti deformati (e dipinti di bianco) di quell’acciaio certamente commuovono. È questo il lato migliore di Ai Weiwei: la capacità di convocare il visitatore a una partecipazione emotiva che diventa poi anche presa di coscienza. Sono invenzioni che hanno il dono della semplicità e che arrivano al punto senza intellettualismi e senza nessun bisogno di presupposti ideologici. Ai Weiwei del resto è artista warholianamente ipermediatico e quindi ha una grande abilità nel mettere a fuoco i messaggi e nell’arrivare a sintesi. Questo è forse l’aspetto per cui la critica tende a guardarlo con sospetto: ma proprio la capacità di disintermediare il linguaggio artistico e di parteciparlo a un pubblico largo è la sua forza e la sua novità.

È un linguaggio che procede per commistioni, come accade nella grande carta da parati della stanza successiva, dove con l’eleganza spiazzante di un monocromo oro vengono miscelati il logo di Twitter, un alpaca e le telecamere di sorveglianza: al centro della sala c’è l’installazione forse più lirica, Grapes, 18 sgabelli della dinastia Qing agganciati tra di loro, che sfidano la forza di gravità e vengono a formare la corolla di un fiore. Il rimbalzo tra bellezza della tradizione e conflitti della modernità è continuo, come accade in una performance famosa, Vases, in cui Ai Weiwei aveva distrutto un’urna funeraria della dinastia Han: le immagini iconiche e frontali di quella performance sono state riproposte in mostra con un grande trittico, composto con mattoncini di Lego (le tavole sono state assemblate dagli studenti dell’Accademia di Belle arti di Firenze): di fronte una decina di vasi di uguale origine sono invece stati trasfigurati attraverso un bagno in vernice da carrozzeria. Il punto più riuscito di convergenza tra passato e presente è forse nell’opera che chiude il percorso al primo piano del palazzo: Souvenir from Shanghai. Un filmato documenta la paradossale demolizione da parte delle autorità locali dello studio che l’artista aveva costruito nel 2010 in un sobborgo della metropoli. Con le macerie Ai Weiwei ha costruito un non-monumento: un parallelepipedo di venti tonnellate, dove mattoni e calcinacci inglobano un bellissimo telaio in legno, resto di un letto della dinastia Qing. A memoria di quell’episodio, in un angolo della stessa sala, ci sono, ammucchiati per terra, anche 1500 granchi in porcellana: Ai Weiwei aveva organizzato una cena pubblica in loco (senza poter poi partecipare) quando era arrivato l’avviso di demolizione: arrivarono in 800 a mangiare quel crostaceo il cui nome in cinese coincide con la parola «armonia»…

La mostra prosegue poi negli spazi della Strozzina, con una sorta di autobiografia artistica e umana, un vero storytelling, montato con la consueta qualità di regia. Ci sono le fotografie che come un film documentano la prima stagione newyorkese (dal 1983 al 1993). C’è la nascita del Beijing East Village, nel ’93 (un’esperienza di comunità di artisti ispirata a quel che aveva vissuto a Manhattan), narrata attraverso immagini e con una grande scultura, Crystal Cube: una struttura trasparente di due tonnellate, che fa evidentemente il verso al minimalismo americano, innestando però materiali della tradizione cinese: tè, ebano, ceramica, marmo. Ovviamente non manca il racconto della stagione del conflitto con le autorità cinesi: Ai Weiwei era sorvegliato a vista, in modi spesso anche grossolani. E per lui diventava un gioco stanare le sue spie maldestre, fotografandole in decine di situazioni. È il periodo, che segue gli 81 giorni di carcerazione, in cui era stato privato di passaporto: come gesto di protesta «poetica» ogni mattina usciva dalla porta del suo studio mettendo un mazzo di fiori nel cestino di una bicicletta parcheggiata fuori dall’ingresso.

L’artista a volte sembra giocare a rimpiattino con il potere. Lo incalza, usando tecniche da «guerrilla marketing», ma poi riesce evidentemente anche a stabilire intese, come quelle che gli permisero di progettare, insieme agli architetti Herzog & de Meuron, un edificio simbolo della Cina contemporanea: lo stadio per le Olimpiadi del 2008. La sensazione è che Ai Weiwei sia ben consapevole di come la Cina abbia bisogno di lui, per affrancare la propria immagine in occidente. E lui, con grande abilità, si prenda tutte le libertà del caso. Del resto Libero è proprio il titolo della mostra.