Inizia il nuovo anno all’università. Tra i tanti studenti che affollano i corridoi, due si osservano, cercando di dissimulare. Lui è di origine algerina, lei tunisina, entrambi sono in Francia, alla Sorbona di Parigi. Inizia la lezione di letteratura, lei lo fa alzare dalla sedia, passa oltre e si siede a un paio di posti di distanza. Ma è la seconda lezione, quella di letteratura comparata, che agita gli animi. «Poesia araba, Cortigiana. D’amore. Desiderio, desiderio e ancora desiderio. Non è su questo che si basa la letteratura?», domanda la professoressa che poi consegna un testo del Dodicesimo secolo, Majnun, Layla (Pazzo di Layla), con un preciso suggerimento: «Prendetevi il tempo di assaporare lentamente l’intenso erotismo di questi versi».
Tenerezza, passione, seduzione, dolore, estasi mistica, le sfumature dell’amore sono infinite e riaffiorano in ogni istante, dai libri che sembravano persi in un tempo remoto, fino al treno di una metropolitana dove Ahmed e Farah decidono di avviare il loro gioco. E in questo modo inizia Una storia d’amore e di desiderio, il secondo lungometraggio di Leyla Bouzid, presentato lo scorso anno alla Semaine de la Critique di Cannes come evento di chiusura. Un titolo nel quale la congiunzione copulativa spesso è sovrastata da quella disgiuntiva. Amore e desiderio. Amore o desiderio. Se per Farah appare naturale essere attraversata da questi due modi imprevedibili di sentire l’altro, per Ahmed l’uno e l’altro sono laceranti, provocano un dissidio irrisolvibile. Desiderare significa intaccare la purezza dell’amore, ma dall’amore si può espellere il desiderio?

L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE è solo una delle numerose tracce. Questo film è fatto anche di strade, di luoghi, di vicoli. Insomma, Parigi, ossia il mondo dove si appare e si scompare, dove si può essere visibili o invisibili. Farah e Ahmed sono estranei a questa città. Lei con l’aiuto della famiglia è evasa da Tunisi per sperimentare, per essere un’altra. Lui, invece, non è più algerino, non conosce l’arabo, perché suo padre, un giornalista scomodo, è fuggito a causa delle numerose minacce ricevute dal regime. Insieme iniziano ad attraversare la città, a percepirsi parte di un luogo, di un mondo nel quale dar vita alle loro schermaglie, avvicinandosi e allontanandosi.
Nella storia sono presenti diversi elementi di natura politica e sociale, ma senza che questi si trasformino in riduttive questioni culturali. Le identità di Farah e Ahmed sono in divenire e attraverso le loro esperienze riconosciamo i dilemmi, talvolta irrisolvibili, dell’esistenza. «La prima idea non è sempre la migliore. Devi vedere se funziona per tutto il testo», spiega Ahemed, pedantemente, per ribadire la sua posizione tra letteratura e vita. Ed è proprio questo il punto, controllare il reale con delle regole per non esporsi all’imprevisto, o accettare l’idea di abbandonarsi a ciò che è prossimo, al caos, al desiderio e all’essere desiderato, all’amare e all’essere amato?

BOUZID SCANSA le insidie del riduzionismo, non schiaccia Ahmed su un tema meramente maschilista e religioso, anche se questi due motivi risuonano, se non in lui nella cerchia di amici che frequenta. Lo spinge in questo mondo, lo costringe, attraverso Farah, a dover scegliere se rischiare o rimanere al di sopra di tutto per illudersi di non dover assaporare il gusto amaro della contaminazione e della fine. Perché amare può anche significare che prima o poi quel sentimento veemente si spegnerà…oppure no.