Ha rischiato di finire dietro le sbarre anche Manal Tamimi, la zia della 16enne palestinese Ahed Tamimi in carcere da quasi due settimane, assieme alla madre Nariman e alla cugina Nour, per aver schiaffeggiato e sferrato un calcio a due soldati durante un’incursione di reparti israeliani nel villaggio di Nabi Saleh. Manal Tamimi è stata bloccata dai militari perché partecipava alla manifestazione davanti al carcere/corte militare di Ofer, ad ovest di Ramallah, organizzata da decine di donne palestinesi e straniere, contro la detenzione di Ahed, Nariman e Nour. Manal è stata rilasciata solo al termine del sit-in disperso da soldati e poliziotti con il lancio di granate assordanti e candelotti lacrimogeni. Sua nipote Ahed ieri è stata portata di nuovo davanti alla corte di Ofer. Il suo avvocato, Gabi Lasky, ha ricordato che l’imputata è solo una adolescente e che poco prima dei fatti in questione aveva visto suo cugino Mohammed, un ragazzo di 1a anni, ferito gravemente alla testa da un proiettile rivestito di gomma sparato dai militari entrati nel villaggio. Non è servito a molto. La procura militare israeliana ha chiesto l’estensione per altri 7 giorni della detenzione di Ahed, 6 giorni per la madre Nariman e 5 per la cugina Nour. I giudici hanno sentenziato che la 16enne e sua madre rimarranno in cella almeno fino a lunedì prossimo, quando è prevista una nuova udienza. Per Nour Tamimi ieri sera si attendeva ancora una decisione. Invece è stato rilasciato, dietro il pagamento di una cauzione di 10mila shekel (circa 2500 euro), Fawzi al Juneidi il 17enne palestinese arrestato a Hebron il 7 dicembre, bendato e trascinato via da una dozzina soldati israeliani. Le foto del suo arresto hanno fatto giro del mondo. Fawzi è divenuto un simbolo, assieme a Ahed Tamimi e a Ibrahim Abu Thuraya, ucciso durante una manifestazione al confine tra Gaza e Israele, delle proteste palestinesi per il riconoscimento fatto da Donald Trump di Gerusalemme capitale di Israele.

«Siamo qui per sostenere questa bambina di 16 anni incarcerata assieme alla mamma e alla cugina e per protestare contro la detenzione di centinaia di bambini e donne palestinesi», ci diceva ieri la scrittrice Suad Amiry, nota anche in Italia (i suoi romanzi sono stati pubblicati da Feltrinelli), tra le manifestanti a Ofer. «La nostra dimostrazione – ha aggiunto Amiry – è pacifica ma loro (i soldati israeliani) sono aggressivi e lanciano i gas lacrimogeni». La scrittrice ha condannato la dichiarazione di Trump su Gerusalemme ma, ha sottolineato, «abbiamo anche visto tanti Paesi schierarsi con i diritti dei palestinesi (sulla città)». Presente ieri anche Luisa Morgantini, l’ex vice presidente dell’Europarlamento. «Manifestiamo per tutte le donne e i bambini palestinesi incarcerati» ha spiegato «e per dire basta alla colonizzazione e all’occupazione militare. Mentre parliamo – ha aggiunto – i soldati israeliani lanciano lacrimogeni e granate assordanti eppure prevedo che i media italiani parleranno di scontri. Qui però non ci sono scontri, ci sono delle donne che chiedono diritti e gli israeliani che continuano a negare questi diritti». Intanto almeno altri 16 palestinesi sono finiti in manette durante i raid compiuti dalle forze israeliane nelle loro case nelle ultime ore. La Palestinian Prisoner’s Society ha aggiornato a 637 il numero degli arrestati in Cisgiordania dallo scoppio delle proteste contro Trump. Tra questi ci sono anche 174 minorenni e 13 donne.

In Israele però qualcuno alza la voce e dice basta all’occupazione e alla negazione dei diritti palestinesi. Decine di ragazzi in età di arruolamento hanno inviato un messaggio collettivo al premier Benyamin Netanyahu, al ministro della difesa Avigdor Lieberman e al ministro dell’istruzione Naftali Bennett per affermare il loro rifiuto di arruolarsi e il sostegno all’indipendenza palestinese. «Il nostro esercito – scrivono – attua una politica governativa razzista, che infrange i diritti umani elementari e che (nei Territori occupati, ndr) applica leggi distinte per gli ebrei e per i palestinesi». «Perciò – proseguono – abbiamo deciso di non prendere parte all’occupazione militare e alla repressione del popolo palestinese. Da 50 anni prosegue questa situazione definita ‘temporanea’ e noi non potremmo assecondarla». Tra i firmatari, Matan Helman, 20 anni, del kibbutz Haogen, che sconta in un carcere militare il suo secondo periodo di detenzione per aver rifiutato di far parte dell’esercito.

Sul piano diplomatico l’Anp di Abu Mazen cerca di tenere alta l’attenzione sullo status di Gerusalemme in risposta alla mossa della Casa Bianca e, per bocca del ministro degli esteri Riad al Malki, ha fatto sapere che boicotterà qualsiasi Paese che trasferirà la propria ambasciata in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme.