Nell’anno «basagliano» numerose iniziative hanno ricordato i cent’anni dalla nascita di colui che, con un atto di «utopia concreta», ha chiuso i manicomi e ridato dignità agli ex-internati. Già qualche mese prima, però, un libro di ricerca, acuto e approfondito, (Caterina Pesce, Pratiche di liberazione. Il manicomio di Arezzo negli anni di Agostino Pirella (1971-1978), Pacini, pp. 240, euro 24) ci raccontava dall’interno la transizione da un’istituzione totale classica a un progetto incentrato sui servizi territoriali; nel mezzo ci sono esperienze di «democrazia dal basso» importanti, pratiche di liberazione per l’appunto. Il caso di studio è quello di Arezzo, dove nel 1971 a dirigere il locale manicomio sarà, grazie anche alla lungimiranza della locale classe dirigente, Agostino Pirella, uno dei maggiori collaboratori di Franco Basaglia.

Come prese avvio e cosa comportò «il rovesciamento pratico» dell’istituzione? Quali principi furono seguiti nella gestione dei ricoverati ora soggetti della nuova comunità terapeutica? E soprattutto: come reagirono i pazienti, le loro famiglie, gli operatori tutti? E come accolse questa trasformazione la cittadinanza?

IN PRIMO LUOGO «l’ospedale aperto» è stata un’esperienza corale: volontari, giornalisti, curiosi, studenti ne furono a vario titolo protagonisti individuando nel crollo dei muri manicomiali la quintessenza delle lotte contro l’autoritarismo e contro la repressione del potere statuale che combattevano su piani più generali.
Non sarà inutile ricordare che anche per una parte della cultura democratica e comunista non si trattò di un passaggio facile: bisognava rimettere in discussione quella scienza che (certamente) aveva migliorato le condizioni delle classi povere e su cui per decenni era stata riposta un’acritica e progressiva fiducia contro le antiche superstizioni.
Agostino Pirella, che rielabora la lezione di Pier Francesco Galli e che aveva già alle spalle anni di lavoro con Basaglia a Gorizia, pone al centro del suo nuovo approccio terapeutico il rapporto personale con i malati. Anche ad Arezzo la comunità terapeutica gli sembra la soluzione maestra per superare la solitudine dell’individuo reificato nell’istituzione. Non fu facile perché la comunità terapeutica non era in grado di estirpare del tutto la violenza insita nel sistema manicomiale, né di eliminare le dinamiche di potere e di emarginazione: non tutti prendevano la parola, non tutti avevano le risorse per farlo.

EPPURE È LA SVOLTA. Nicoletta Goldschmidt, psichiatra ad Arezzo, chiama «azioni parlanti» l’introduzione di tutte quelle basilari misure di igiene che interessavano i corpi e gli spazi manicomiali, come pure parla di riconoscimento di nuove soggettività ora ascoltate in comunità. L’introduzione dell’assemblea generale, voluta da Pirella, e di cui qui vengono esaminati i verbali, segna un ulteriore avanzamento: la gestione dell’istituzione è affidata all’«attività spontanea di tutti coloro che partecipano, a qualsiasi titolo, alla giornata ospedaliera»; ora i bisogni sono verbalizzati e il lemma «Libertà» suona come il più sentito, «Dialettica» quello più ricorrente nelle fonti. L’interesse del libro di Caterina Pesce consiste, però, nel restituirci i contraccolpi, le afasie, le spavalderie di donne e uomini in sofferenza nel momento in cui prendono parola, rivendicano diritti, iniziano nuovi cammini. Cambia profondamente anche la narrazione della malattia: ora i giovani psichiatri osservano il malessere esistenziale e ascoltano i diversi linguaggi.

LE STORIE raccontano codici culturali tradizionali e voglia di riscatto, sensi di colpa e incapacità di autodeterminarsi, un caleidoscopio di situazioni. Molti gli insuccessi e tante le sconfitte che alimentano scetticismi e infuocano la stampa ostile; la comunità aretina in parte sostiene, in parte è ostile e impaurita. Non mancano ovviamente gli scontri; il nuovo team di psichiatri discute e si divide su tutto: ad esempio su come pensare la nuova legge, su come organizzare i servizi territoriali, se considerare la psicoanalisi una risorsa o una «scienza borghese».
Superare le pratiche violente e gli antichi paternalismi non sarà facile per infermieri e operatori, mentre una nuova figura, quella delle assistenti sociali, prende piede e attiva le relazioni con i familiari.

L’incontro empatico con i pazienti porta i suoi frutti: Luciano Della Mea, giornalista sofferente e insofferente al manicomio, promuove la pubblicazione del racconto autobiografico della lungodegente Adalgisa Conti (Gentilissimo sig. Dottore, questa è la mia vita. Manicomio 1914) e di altri «Senzastoria». Una infermiera ricorda icasticamente: «Sforzarsi di capire un malato è un lavoro che in fondo fai su te stessa. Capisci come sei».
Sarebbe sciocco negare le difficoltà, oggi sempre più acute a causa dei famosi tagli sulla sanità, ma sarebbe altrettanto sciocco negare la portata storica di questa storia e di quella legge.