«Qualsiasi insegnamento, qualsiasi segnale, qualsiasi verità detta è un medium di gomma. La cultura è apprendimento del dimenticare». Vincenzo Agnetti lavorava tutti i giorni nel suo studio milanese di via Machiavelli 30 per «fare spazio» alle sue profezie linguistiche (ed emotive). In anticipo su un futuro immaginato e tenacemente ricercato, coglieva i «frutti acerbi», decifrando un tempo non lineare che deragliava continuamente verso l’ignoto. Così nacque anche il Libro dimenticato a memoria, l’opera iconica delle parole svaporate in un vuoto al centro che però non voleva essere una tabula rasa (l’azzeramento lunare di Azimuth) ma un processo alchemico di rigenerazione.

I King, 1977

NONOSTANTE Agnetti non ci sia più (è scomparso nel 1981, era nato nel 1926), la sua enigmatica figura di intellettuale torna a più riprese, innescando la miccia dell’utopia del pensiero libero. Lo fa, a cadenze regolari, in quello stesso atelier dove oggi si trova il suo Archivio e dove la figlia Germana, che lo custodisce e fa vivere con passione (insieme a Guido Barbato, figlio di lei) offre un ciclo di mostre tematiche, a cui segue puntualmente la pubblicazione di preziosi quaderni teorici. Fino al 5 marzo, in questo luogo che sorge davanti i binari invitando al vagabondaggio fisico e mentale, si può visitare Le stanze delle predizioni, un nuovo allestimento che reinterpreta alcune sale della personale al museo Castello di Portofino del 1977, con i King, Le stagioni, L’Apocalisse e un assioma che non ritrae un’assenza impossibile da percepire (come Quando mi vidi non c’ero), ma lo stupore, unico dispositivo per intuire e svelare i segreti del mondo.
È sempre qui, nell’Archivio, che al momento «tace», adagiata su un tavolo di scritture, appunti e libri, anche la celebre Macchina drogata (1969), una calcolatrice Olivetti Divisumma 14 che l’artista – perito elettronico in una sua vita parallela spesa tra Argentina, Norvegia, Qatar – aveva modificato sostituendo ai numeri le lettere e producendo poetici antenati degli algoritmi alla rovescia. Algoritmi che non miravano a nessun controllo sociale ma a costruire una comunità umana che si affidasse alla potenza della sonorità della voce e alle intonazioni situazioniste di quelle sequenze alfabetiche insensate. La presenza «sentimentale» del corpo quindi, a dispetto dell’apparente asetticità delle formule.

Vinenzo Agnetti, 1977

CRITICO (suo il testo 8 tavole di accertamento scritto per l’amico Piero Manzoni e l’editore Vanni Scheiwiller), artista, performer, fotografo, «sociologo» che smascherava le mistificazioni economiche del potere e lo svilimento dei valori con la produzione di «informazioni inutili» (la comunicazione era per lui una trappola), Vincenzo Agnetti dissolveva la pittura in una segnaletica semantica fantasiosa, inventando poi un teatro statico in cui l’ambiguità si dipanasse fra ascolto e cancellazione delle parole, monologhi e rumori bianchi. Un teatro al negativo, come quel Neg, strumento musicale da lui assemblato (e ora ricostruito con materiali originali dell’epoca) che era in grado di suonare le «pause». Agnetti, infatti, aveva modificato un giradischi stereofonico ottenendo che la macchina producesse una rilevanza del silenzio, intercettando la mancanza al posto della pienezza.

QUELL’ESPERIENZA RINATA (pure attraverso recenti «concerti») sarà raccolta in un vinile, così come in vinile stanno per essere pubblicate le sue poesie (il video Machiavelli 30, esposto a fine 2019, era l’edizione fonica e fotografica del libro in versi uscito per Guanda nel 1978). E in primavera la casa editrice Abscondita darà alle stampe i suoi scritti d’arte, mentre presso l’Archivio prenderà forma una nuova mostra che metterà Agnetti (e le sue profetiche operazioni linguistico-numeriche) in dialogo con Luca Pozzi, giovane artista che strania lo spazio attraverso realtà virtuali e visualizzazioni grafiche in 3D.
Agnetti aveva l’attitudine di giocare con lo spettatore: raccontava con logica ferrea e ironia dadaista le sue opere, testimoniando in minuziosi fogli appesi accanto ai lavori la volatilità linguistica e le sue assonanze paradossali, sempre in bilico fra caos e ordine. «L’artista – scriveva– è la coscienza ribelle della cultura perché la cultura, nei suoi specifici, come ad esempio la storia, ci presenta soltanto dei messaggi intercettati». E allora, non resta che dimenticare a memoria, evitando azzeramenti rischiosi ma lasciando che il vuoto accolga germinazioni di idee.