Nel 1971 Peter Weiss scrisse un dramma in due atti intitolato Hölderlin: né documentario, né storico, quel testo è piuttosto un commento personale del grande drammaturgo tedesco agli scritti del poeta svevo, un «dramma sul presente, straniato solo trasferendolo in un’epoca passata». Weiss intendeva liberare Hölderlin dall’immagine stereotipata che lo vuole lontano dalla realtà, immerso nel sogno della bellezza classica e nella speranza di una sua utopica restaurazione.

Sulla scorta di evidenti suggestioni lukácsiane, Weiss fa dunque di Hölderlin un giacobino, un rivoluzionario fedele a quegli ideali di emancipazione che aveva condiviso con Schelling e con Hegel durante gli anni di studio a Tubinga. L’ideale del grande poeta tedesco sarebbe dunque radicalmente politico, e anzi solo muovendo da qui sarebbe possibile comprenderne la «follia», che andrebbe infatti pensata – secondo Weiss – non in termini banalmente patologici, bensì come una forma di vita, ovvero come l’esito dell’intenzione di Hölderlin di sottrarre se stesso a un mondo che aveva rinunciato alla lotta per la libertà. La separazione tra il poeta e quel tipo di mondo emerge in tutta evidenza nel confronto tra Hölderlin e Goethe, il quale, nella scrittura di Weiss, diventa l’emblema dell’universo borghese, simbolo di un mondo pacificato e di una consapevole acquiescenza nei confronti del potere.

L’ultimo libro di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin Cronaca di una vita abitante 1806-1843, Einaudi, pp. 248, € 20,00) è anch’esso dedicato a una interpretazione della seconda metà della vita del poeta, e – come il dramma di Weiss – non vuole essere documentario, bensì di commento personale, incrociato a uno sguardo sul presente, e intenzionato a rendere intelligibile la follia, tramite la contrapposizione, meno drammatica e potente di quanto non avvenga in Weiss, tra Hölderlin e Goethe.

Parallelismi imbarazzanti
Detto ciò, non è facile orientarsi in questo saggio di Agamben: per un verso sembra più la pubblicazione di una serie di materiali per un libro possibile che un libro vero e proprio, il riflesso – forse – delle sue sottolineature a testi documentari, tra cui quello di Beck e Raabe del 1970 o di Wittkop del 1993. Da questa esperienza di lettura emergono, in forma neanche troppo marginale, e comunque decisiva, una serie di parallelismi e analogie talora anche imbarazzanti tra la situazione di isolamento del poeta tedesco dentro la torre di Tubinga e quella di noi oggi, sulla quale, come è noto, Agamben sostiene posizioni estremamente controverse. Parallelismi e analogie arrivano al punto da lasciar supporre una sorta di identificazione di Agamben stesso con Hölderlin, come se il lockdown cui si sottomise l’uno riflettesse in qualche modo quello cui è costretto l’altro. Nell’Epilogo, così scrive l’autore: «Da quasi un anno vivo ogni giorno con Hölderlin, negli ultimi mesi in una situazione di isolamento in cui non avrei mai creduto di dovermi trovare. Congedandomi ora da lui, la sua follia mi sembra del tutto innocente rispetto a quella in cui un’intera società è precipitata senza accorgersene. Se cerco di compitare la lezione politica che mi è sembrato di poter cogliere nella vita abitante del poeta nella torre sul Neckar, posso forse per ora soltanto ‘balbettare e balbettare’. Non ci sono lettori. Ci sono solo parole senza destinatario. La domanda ‘che cosa significa abitare poeticamente?’ aspetta ancora una risposta. Pallaksch. Pallaksch».

Del tutto privo di note e con pochi rimandi bibliografici («a causa – scrive Agamben un po’ ridicolmente – dell’impossibilità di accedere alle biblioteche come si accede ai supermercati»), il libro si compone di una «soglia», di un «prologo», di una «cronaca», che occupa la parte più cospicua del libro, e di un epilogo, cui vanno ad aggiungersi un elenco non commentato dei libri di Hölderlin conservati nella casa di Nürtingen, e 17 immagini.

La ‘soglia’ ha il compito di giustificare, attraverso suggestioni benjaminiane, la forma letteraria della cronaca, la quale a sua volta consiste di nient’altro se non di una selezione con qualche commento di materiali estratti da alcune biografie di Hölderlin, dalle poesie, dalle lettere dei parenti, del falegname Zimmer, ma anche dalle minute dei costi della pensione e del calzolaio. Sino al 1809, la cronaca della vita di Hölderlin ha quale testo a fronte una cronologia storica, dove, insieme agli eventi che hanno segnato la storia tedesca di quegli anni ci si riferisce a episodi della vita di Goethe, quale emblema dell’intellettuale integrato che fa retoricamente e un po’ superficialmente da controcanto a quella «vita abitante» di Hölderlin su cui si concentrerà poi l’interpretazione di Agamben.

L’operazione si ferma, piuttosto curiosamente, al 1809 e la giustificazione lascia, anche in questo caso, un po’ basiti: «ci è parso che la contrapposizione alla vita abitante di Hölderlin fosse in questo modo sufficientemente esemplificata. Il lettore che ne avesse voglia può continuarla sfogliando, oltre alla citata ‘Vita di Goethe giorno per giorno’, un qualsiasi atlante storico». Il Prologo e l’Epilogo sono invece le parti in cui Agamben si impegna più direttamente nell’interpretazione: nel primo, che è di fatto la versione italiana di un saggio apparso in tedesco su Studi Germanici, Agamben cerca di mostrare il senso antitragico della svolta di Hölderlin a partire dal 1802: la poesia e la vita di lui da folle sarebbero – secondo Agamben – non il tentativo necessariamente tragico di comporre in unità la scissione, quanto piuttosto l’esibizione della costitutività e della comicità della scissione medesima. L’esagerata cortesia di Hölderlin nei confronti di chiunque gli si facesse incontro durante gli anni in cui viveva nella torre di Tubinga, le parole insensate con cui si sarebbe divertito a sorprendere gli avventori (per quanto non sia affatto agevole, a dire il vero, ricavare tanto divertimento dalle parole del poeta), altro non sarebbero, secondo Agamben, se non manifestazioni di una svolta in direzione del comico e della possibilità di un’azione che destituisce le opposizioni classiche tra privato e pubblico, tra attivo e passivo, tra potenza e atto, tra unito e separato.

Proiezioni filosofiche
Nelle pagine finali, le parole di Hölderlin vengono dunque lette in relazione ad alcuni temi dell’ultima produzione di Agamben, ovvero al tentativo di pensare un’attività capace di disattivare e rendere inoperose le opere umane per aprirle a un nuovo possibile uso.

Se l’epilogo del dramma di Weiss è un formidabile dialogo tra il folle Hölderlin e un giovane Marx, che si rivolge al poeta parlandogli di un mondo in cui gli dei non stanno più sulla terra, ma dentro di essa, svelando così l’intenzione profonda che attraversa il dramma weissiano, ovvero l’idea di uno Hölderlin tragico anticipatore della necessità di un diverso rapporto tra l’intellettuale e il mondo, l’epilogo del libro attuale è segnato invece dall’incontro di Hölderlin con lo stesso Agamben, dove si svela l’intenzione profonda di questo libro, che non è un libro: rendere la vita abitante di Hölderlin niente più che una figura della filosofia di Agamben.