In Afghanistan c’è una pietra detta di kharmohra, in realtà una ghiandola (o cartilagine) situata nella gola dell’asino che, una volta estratta ed essiccata, somiglia a un ciottolo. Secondo un’antica credenza, affinché i desideri più intimi possano avverarsi, il sassolino deve essere affidato a un mullah, il quale ci soffierà sopra dei versetti del Corano. Tuttavia, il sortilegio ha un prezzo e non va quasi mai a buon fine.
Da questo amuleto ancestrale e dal parallelo con l’ambita stabilità politica in Afghanistan, costata vite e denaro senza vedere la luce, scaturisce l’esposizione Kharmohra L’Afghanistan au risque de l’art, fino al 1 marzo al Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditerranée (Mucem) di Marsiglia. Curata da Guilda Chahverdi, dal 2010 al 2013 direttrice dell’Istituto francese d’Afghanistan che, assieme all’Ambasciata di Francia, sostiene il progetto con la consulenza scientifica di Agnès Devictor dell’Università Paris 1 Panthéon-Sorbonne, la rassegna riunisce una sessantina di opere – foto, pitture, installazioni, calligrafie e video – concepite dall’impeto creativo di una generazione di orfani dell’arte, cresciuti sotto un regime, quello dei Talebani, avverso a qualsiasi immagine. Rifiutando lo sguardo deformante dell’Orientalismo caro all’Occidente, gli undici protagonisti della mostra – autodidatti o formatisi in paesi di accoglienza – si concentrano piuttosto sull’analisi del quotidiano, che trova nella mancanza di una sicurezza ripetutamente promessa e disattesa, proprio come le aspirazioni imprigionate nella pietra magica di kharmohra, un reale terreno di riflessione e dialogo con l’esterno.
Reso fragile da quarant’anni di guerre internazionali e conflitti interni, l’Afghanistan «in ricostruzione» è oppresso da inarrestabili attacchi suicidi come quello verificatosi l’11 dicembre 2014 nella sede dell’Istituto francese di Kabul durante una pièce teatrale della compagnia Azdar, incentrata sulle conseguenze emotive di un’esplosione. Il documentario True Warriors di Niklas Schenck e Ronja Von Wurmb-Seibel (2017) – coprodotto da Arte e presentato in libero accesso a corredo dell’esposizione – rievoca attraverso toccanti testimonianze il tragico episodio che segnò una pesante battuta d’arresto nella scena culturale del paese, pur senza spegnere del tutto gli ideali dei giovani artisti.
Agli attentati come arma di guerra urbana dei «risorti» Talebani si rapporta Kaveh Ayreek, nato nel 1981 nella provincia di Daikondi e emigrato a Teheran con la famiglia all’età di cinque anni. Rientrato in Afghanistan nel 2008, sceglie la strada come luogo di resistenza e lotta per i diritti umani. Le foto di Hadi Moravedj permettono di rivivere la performance Ghorbanian (Vittime), realizzata da Ayreek il 19 gennaio del 2014 a Kabul all’indomani dell’attentato nel ristorante La Taverne du Liban e nel mezzo di una manifestazione pacifica: mimare la morte che sopraggiunge inaspettatamente è un gesto rituale che Ayreek non riuscirà però a compiere ventuno volte come previsto (ventuno, infatti, erano le vittime che avrebbe voluto omaggiare) benché la silhouette bianca tracciata attorno al suo corpo da un secondo attore e riproposta in serie nel percorso della mostra ricorderà i fantasmi senza giustizia che popolano la capitale afgana.
Alla cecità della violenza si rifà anche Latif Eshraq, classe 1970, originario di Ghazni ma con un passato in Kuwait, dove per sopravvivere si dedica agli affreschi e ai ritratti di gusto orientalista. Le sue grandi tele dai toni cupi e dolenti, dipinte a Kabul a partire dal 2010, racchiudono in un movimento vorticoso figure umane di cui si percepiscono contorni e pochi dettagli, come il velo rosso di Tabassom, una bambina di nove anni appartenente all’etnia hazara, decapitata da militanti dello Stato Islamico dopo il sequestro di un autobus. In Farkhunda (2017), Eshraq denuncia un altro truce assassinio: il dipinto prende infatti il nome dalla studentessa di teologia linciata e poi bruciata dalla folla davanti alla moschea Shah-e Doh Shamshira per aver osato mettere in discussione le pratiche superstiziose e lucrative di un mullah. Nuda al centro del quadro, Farkhunda rappresenta la verità.
Al dramma del popolo hazara, discriminato, deportato, vittima di genocidio, consacra il suo lavoro il ventottenne Mohsin Taasha, uno degli artisti più interessanti della rassegna, già distintosi a Documenta 13 e alla Biennale di Venezia del 2015. Residente in Pakistan fino al 2004, al ritorno in Afghanistan viene iniziato alla miniatura, di cui romperà da subito le regole per sviluppare visioni oniriche immerse nel rosso, colore che riconduce al sangue ma anche al fazzoletto tipico della tradizione hazara e, infine, alla rinascita.
Tra i volumi senza costrizioni spaziali e ideologiche della scenografia ideata da Anaïde Nayebzadeh aleggiano i div, spiriti malefici che le pitture acriliche di M. Mahdi Hamed Hassanzada – nato nel 1978 a Kabul, fuggito a Istanbul e recentemente stabilitosi a Chicago – trasformano in creature ermafrodite con le corna, nel tentativo di liberare i corpi dal giudizio della società. Ma la poesia s’insinua nell’allestimento come risposta alla paura. Le foto di Morteza Herati (Herat, 1985) rivelano la gioia e la spensieratezza dell’infanzia, nondimeno rubata, dei «bambini del fiume», mentre quelle di Farzana Wahidy (Kandahar, 1984) indagano il rapporto delle donne con lo spazio pubblico, restituendo dignità a corpi nascosti e oltraggiati.
Non si lascerà questo ennesimo abbraccio del Mucem a un’umanità in cerca di pace, senza ascoltare il silenzioso grido delle calligrafie scomposte di Aziz Hazara (Provincia di Vardak, 1992) – inchiostri neri come le parole bruciate dell’incomunicabilità – e la voce profonda e indistruttibile di Asar Laiq (classe 1964), cantore e drammaturgo di lingua pastho proveniente dal Laghman che, dopo aver dismesso i panni del soldato, gira l’Afghanistan per raccogliere storie e costruire con la forza dell’oralità orizzonti sgombri di malintesi e rancori.