È cominciato ieri, venerdì 31 luglio, il cessate il fuoco annunciato da Suhail Shaheen, portavoce dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, Qatar, e subito accolto dal presidente afghano Ashraf Ghani. Durerà tre giorni, in occasione della festività islamica dell’Eid al-Adha, e potrebbe condurre al negoziato tra i Talebani e il governo di Kabul, più volte rimandato anche se previsto dall’accordo firmato a Doha il 29 febbraio 2020 da mullah Baradar, a capo della delegazione talebana, e da Zalmay Khalilzad, il rappresentante speciale dell’amministrazione Trump.

Al cessate il fuoco si accompagna infatti la decisione del presidente Ghani di rilasciare 500 detenuti talebani, che si sommano ai circa 4.600 già liberati dalle carceri governative dallo scorso marzo. Questi ultimi fanno parte di una lista di 5,000 persone consegnata dagli studenti coranici ai rappresentanti istituzionali. I 500, la cui liberazione è stata annunciata ieri da Ghani, non sono invece inclusi nella lista, ma servono da “compensazione”: Ghani ha infatti deciso di non liberare gli ultimi 400 detenuti della “lista talebana”, perché responsabili di gravi crimini. Della loro sorte, ha detto, si occuperà un’apposita Loya Jirga, un’assemblea di notabili.

Un modo per scaricare su altri una scelta moralmente e politicamente difficile, simile a quella affrontata nel novembre 2019 quando Ghani aveva deciso di avallare lo scambio tra tre membri della sanguinaria rete Haqqani e due docenti occidentali sequestrati dai barbuti. Questa volta ha liberato 4.600 militanti, ma non i 400 detenuti di “alto profilo”, in cambio di 1.005 detenuti governativi rilasciati dai Talebani. E in cambio, così spera, dell’avvio del negoziato, di cui è stato finora semplice spettatore, spesso critico, più raramente accomodante.

L’accordo tra Usa e Talebani firmato a Doha prevedeva che il dialogo intra-afghano iniziasse il 10 marzo, ma la fiducia tra il governo Ghani e i Talebani allora era ai minimi. Oggi, a mesi di distanza, le accuse reciproche continuano, ma aumentano le pressioni esterne, specialmente degli americani e dell’inviato Khalilzad, affinché i due attori comincino a parlarsi, evitando di compromettere la strategia elettorale del presidente Trump. Nei giorni scorsi proprio il portavoce dei Talebani Shaheen aveva chiarito la posizione della leadership: siamo pronti al dialogo, ma soltanto dopo la liberazione di tutti i 5.000 detenuti della lista. La mossa, scaltra ma rischiosa di Ghani, non è stata ancora commentata dai Talebani, che questa volta potrebbero dimostrare quella flessibilità finora negata: un recente messaggio del leader supremo, Haibatullah Akhundzada, aveva toni molto più “ecumenici” e rassicuranti del solito, a dispetto dell’intensità della violenza con cui gli studenti coranici continuano a colpire le forze di sicurezza afghane.

Non però quelle americane o straniere: lo esclude l’accordo di Doha, un accordo bilaterale che non dice nulla sul grado di violenza consentito ai Talebani contro le forze afghane. Il presidente Ghani, e ancor di più la popolazione, chiede che il cessate il fuoco di tre giorni venga prolungato, che diventi permanente, così da concedere respiro ai civili: secondo il rapporto di Unama, la missione dell’Onu a Kabul, reso pubblico il 27 luglio, nei primi sei mesi del 2020 si sarebbero registrati 1,282 morti e 2.176 feriti. Il 13% in meno rispetto allo stesso periodo del 2019. La diminuzione, sostiene l’Onu, va ricondotta alle ridotte attività militari degli eserciti stranieri e della branca locale dello Stato islamico. E 3.458 vittime rimangono comunque troppe per parlare di pace.